Prezzi irrisori a fronte di guadagni miliardari: ecco perché il Ddl Concorrenza dovrebbe intervenire sulle licenze degli stabilimenti balneari.
La realtà delle concessioni demaniali delle spiagge italiane è paradossale. Il caso delle località vip che pagano canoni annuali irrisori ne è un esempio lampante.
Il Ddl Concorrenza vorrebbe agire ora sulle concessioni balneari ma bisognerà aspettare almeno 6 mesi per capire se ci sarà un riequilibrio della condizione stagnante dei nostri giorni dove alcune autorizzazioni, con l’attuale sistema del rinnovo automatico, sono state prorogate fino alla fine del 2033.
L’unica novità sul tema, seppur comunque poco incisiva, è l’introduzione del tetto minimo di 2.500 euro. Si è ben lontani però dalla svolta che ci richiedono da anni l’UE e l’Antitrust.
La mappatura delle concessioni balneari
Le spiagge in concessione in Italia fino a maggio 2021 erano 61.426 (52.619 nel 2018). L’area attuale sarebbe quindi la metà di quella occupabile in tutto lo stivale.
In certe regioni però le spiagge a pagamento sono quasi la totalità di quelle presenti, la distribuzione territoriale dei lidi infatti non è certo omogenea. Gli esempi più iconici sono quali della Liguria, dell’Emilia-Romagna e della Campania con quasi il 70% delle spiagge occupato da stabilimenti a pagamento. Preoccupante anche il fenomeno dell’aumento in Sicilia che ha registrato quasi 200 nuovi stabilimenti in 3 anni.
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Cosa non funziona nel sistema?
Sebbene in Italia solo 50% delle coste sia dato in concessione si parla comunque di un mercato critico in termini di concorrenza.
Essendo le spiagge un bene pubblico, sono identificate come proprietà dello Stato e non possono per tale motivo essere vendute a privati. Si struttura quindi un sistema regolato da un bando di gara pubblico che permette ai vincitori di disporre del bene in questione per un certo periodo di tempo a fronte del pagamento di un canone come nel caso di un normale affitto.
Lo Stato però non indice da tempo una nuova gara per le concessione nonostante il pressing dell’Unione Europea, del Consiglio di Stato e dell’ Antitrust. Ci si ritrova piuttosto in uno stato di strapotere dei beneficiari attuali.
Il dislivello è certificato anche dalle rendite economiche statali a fronte di quelle dei privati. Lo Stato infatti non guadagna dalle concessioni al momento e, nel 2019, come riporta l’Agcom, su un totale di 29.689 concessioni marittime ben 21.581 pagavano un canone inferiore a 2.500 euro all’anno. Dei 115 milioni di euro attesi per quell’anno inoltre solo 83 sono stati riscossi. Dando uno sguardo complessivo, grazie ai report di Legambiente, possiamo inoltre dire che risultano ancora da versare 235 milioni di euro di canoni dal lontano 2007.
Questa condizione è visibile poi nei canoni specifici delle spiagge vip che rivelano in pieno la stortura del sistema. Sempre Legambiente dichiara infatti:
«I canoni che si pagano per le concessioni in alcune località di turismo di lusso come la Costa Smeralda o la Versilia risultano vergognosi. Una media di circa 322 euro ciascuna l’anno a fronte di guadagni milionari. Praticamente nulla se confrontati ai 400 euro giornalieri richiesti nella stessa zona per un ombrellone con 2 lettini».
Casi analoghi si registrano però anche in luoghi quali Terracina, Gaeta, Rimini, Forte dei Marmi e Capalbio.
L’unico intervento: il canone minimo a 2.500 euro
Sebbene le norme attuali, come afferma il commissario europeo per il Mercato interno Thierry Breton, «scoraggiano gli investimenti e ostacolano la modernizzazione di un settore fondamentale per l’economia italiana» non ci sono ancora certezze per un vero cambio di rotta.
La novità del 2020 è stata l’introduzione del canone minimo annuo (passato da 362,90 euro a 2.500 euro) che dovrebbe generare un maggior gettito per 39 milioni all’anno, ma finché non arriverà la mappatura decisa del Ddl Concorrenza persevereranno le situazioni di iniquità.
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