Continuano le discussioni sui risultati raggiunti dal reddito di cittadinanza in Italia. All’estero però va meglio: ecco qualche esempio.
Il reddito di cittadinanza non è una novità italiana: già prima dell’introduzione della tanto dibattuta misura per il sostegno al reddito, ad esempio, nel nostro Paese vi erano delle forme per il contrasto alla povertà, come poteva essere la social card SIA o il reddito d’inclusione REI. Tutte misure fondate sullo stesso principio: fornire un supporto economico a chi vive una situazione di difficoltà.
Ma anche in Europa non si è nuovi a strumenti del genere: sono molti i Paesi, infatti, che ancora oggi dispongono di un loro reddito di cittadinanza e con maggiore successo rispetto a questi primi anni in Italia.
Prevedere una tale misura, dunque, non è sbagliato - anzi, è nella stessa Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile che viene fissato l’obiettivo di ridurre di almeno la metà la percentuale delle persone che oggi vivono in una condizione di povertà - ma bisogna che ci sia la volontà politica di farla funzionare.
Volontà che sembra mancare in Italia, se non altro perché sul reddito di cittadinanza sembra sempre mancare una unicità d’intenti all’interno della maggioranza. Proprio i contrasti interni potrebbero portare presto a una riforma della misura.
In Germania il reddito di cittadinanza funziona? Ecco perché
Spesso chi difende il reddito di cittadinanza prende come riferimento il modello tedesco. In Germania, infatti, un reddito di cittadinanza esiste e funziona alla grande. E non è un caso se è proprio la Germania a spendere di più per questa misura, dimostrazione che da parte del Governo vi è la seria volontà di puntarci.
Nel dettaglio, mentre gli altri Paesi stanziano per il reddito di cittadinanza una cifra che oscilla tra lo 0,3% e lo 0,5% del PIL, la Germania - dove lo stanziamento ammonta a 15 miliardi di euro - siamo all’1,5%. Come funziona? La platea dei beneficiari è formata da persone abili al lavoro che dichiarano di non avere un reddito sufficiente per mantenere la famiglia.
È più ampia rispetto all’Italia, mentre le cifre del sostegno mensile sono leggermente più basse. Per la persona sola siamo a circa 432 euro al mese (mentre in Italia sono 500, più eventualmente il contributo per l’affitto), mentre per le coppie di conviventi - anche in maniera stabile - siamo sui 389 euro a testa.
Il meccanismo è lo stesso di quello previsto in Italia. Chi prende il sostegno, dunque, deve rendersi disponibile per un piano di ricollocazione dove, manco a dirlo, in Germania vengono raggiunti ottimi risultati. Ma va detto che qui nei centri per l’impiego la forza lavoro è molto più numerosa rispetto all’Italia.
Lato sanzioni, per chi si rifiuta di prendere parte a un corso di formazione (anche questi in Italia scarseggiano) o comunque non accetta un lavoro, scatta una decurtazione della misura del 30% per tre mesi. Al secondo rifiuto la decurtazione è del 60%, al terzo rifiuto scatta una sospensione dei pagamenti per tre mesi.
Buoni i risultati anche in Francia
Anche la Francia può “vantarsi” per aver trovato un sistema di ricollocazione che funziona. Qui, infatti, c’è il Revenu de solidarité active, misura che si può richiedere al compimento dei 25 anni che ha un importo che varia dai 565,34€ per la persona sola, per salire a 1.187,21€ per la coppia con figli. In sostanza, per ogni componente in più nel nucleo familiare si aggiungono altri 226,14€.
A fianco a questo strumento ve n’è un secondo nato proprio per incentivare chi prende il Revenu de solidarité active ad accettare un lavoro: si chiama Prime activité e a questo possono accedere le persone con età superiore ai 18 anni che pur avendo un lavoro hanno percepito nei tre mesi precedenti un reddito da lavoro autonomo o dipendente inferiore a 1.846,50€ (ovvero 1,5 volte il salario minimo legale). Con questo strumento aumenta il reddito condizionato all’occupazione, così che i lavori meno pagati possano risultare comunque appetibili. Solo chi ha un lavoro, infatti, può accedere a una tale misura.
Non come in Italia dove chi inizia un’attività lavorativa subisce la perdita o la decadenza del reddito di cittadinanza, ragion per cui i beneficiari potrebbero essere disincentivati dall’accettare un nuovo lavoro, specialmente quando sottopagato.
All’estero più aperti nei confronti degli stranieri
Per non parlare poi della propaganda negativa riguardo alle regole previste dal reddito di cittadinanza italiano nei confronti degli stranieri.
Ricordiamo che da noi per avere accesso alla misura bisogna essere residenti in Italia da almeno 10 anni, di cui 2 anni in maniera continuativa. Ebbene, nel resto d’Europa solo la Danimarca si avvicina a questo limite, in quanto è pari a 9 anni. La media UE è però di 5 anni, ragion per cui anche in Italia si sta discutendo della possibilità di abbassarlo. Diverse le ipotesi, ma dipenderà dalle risorse: ad esempio, se anche noi dovessimo scendere a 5 anni, come è possibile, servirebbero 600 milioni di euro in più (sui 10 miliardi spesi nel 2021) con la platea dei beneficiari che aumenterebbe di 98 mila famiglie.
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