La fortuna di un medicinale contro il Covid fa ben sperare i pazienti gravi. Ecco cosa dicono gli studi condotti fino a ora.
La scienza continua ad avanzare rispetto al trattamento delle infezioni da COVID-19, in particolare rispetto ai casi in cui il Coronavirus si manifesta in forma grave.
L’ultima scoperta è quella legata a un farmaco sperimentale denominato sabizabulina. Inizialmente sviluppato per trattare alcune forme di tumore, questo medicinale sta dando esiti promettenti e, se somministrato tempestivamente rispetto alla comparsa dei sintomi, sembra sia in grado di ridurre in maniera consistente il rischio di polmoniti e morte nei pazienti ricoverati in terapia intensiva.
Gli incoraggianti risultati dell’iniziale fase di test clinici condotti su un numero ristretto di soggetti hanno spinto Veru, l’azienda farmaceutica statunitense produttrice della sabizabulina, a sospenderne la sperimentazione per accelerarne il processo di autorizzazione.
Il farmaco passa così al vaglio della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale americana che si occupa dell’approvazione dei farmaci in circolazione. Riassumendo ciò che sappiamo fino a questo momento, capiamo quindi come e perché la sabizabulina potrebbe essere attenzionata anche dal panorama medico italiano.
Come funziona il farmaco
Fin dall’inizio della pandemia si è cercato d’individuare e formulare dei farmaci capaci di contrastare l’insorgenza della malattia. Per il range delle sintomatologie definite lievi la risposta che oggi si consolida come più efficace è quella del Paxlovid, prodotto innovativo di Pfizer, mentre nella ricerca di trattamenti contro le forme gravi di COVID-19 nessuno dei prodotti sperimentali impiegati era stato in grado d’intervenire in maniera risolutiva.
Fino a questo momento insomma i medici avevano ben poche risorse per aiutare concretamente i soggetti ricoverati in terapia intensiva per complicazioni polmonari.
La sabizabulina invece sembra rispondere positivamente essendo in grado di agire sui meccanismi di trasporto di alcune sostanze tra le cellule. Quando ci si ammala infatti la funzionalità dei tubuli del citoscheletro viene alterata poiché questi ultimi vengono sfruttati dal coronavirus per muoversi tra le cellule e portare avanti l’infezione nell’organismo. Grazie alla somministrazione del medicinale invece si induce una ridotta mobilità e ciò rallenta anche la replicazione del virus.
In questo modo l’organismo ha più tempo per organizzare una risposta immunitaria adeguata e non sovradimensionata, altra eventualità che può portare con sé complicazioni per il paziente.
Il trattamento consigliato è l’assunzione giornaliera di una capsula da 9 milligrammi mentre sul fronte della conservazione il farmaco può essere mantenuto a temperatura ambiente senza eccessive cautele per il trasporto.
Tutto questo concorre a rendere la sabizabulina un alleato importante nella lotta al coronavirus tant’è che l’amministratore delegato di Veru, Mitchell Steiner, si dice estremamente soddisfatto:
«La sabizabulina è il primo farmaco a dimostrare una riduzione delle morti e dei ricoveri significativa sia dal punto di vista statistico sia dal punto di vista clinico: ciò rappresenta un grande passo avanti».
Alle spalle di queste dichiarazioni tanto rosee ci sono dei numeri, a noi noti ancora solo parzialmente, che però forniscono importanti informazioni rispetto all’iter che il farmaco ha seguito fino a ora.
Lo studio condotto con Sabizabulina
Per i suoi test clinici Veru ha impiegato la sabizabulina su circa 150 volontari. Tutti i pazienti manifestavano forme gravi di COVID-19 e sono stati quindi divisi in due gruppi: un gruppo a cui è stato effettivamente somministrato il farmaco e un gruppo di controllo con un placebo, un mediciale che non dava nessun effetto.
Come riportato dal Post, nel gruppo del placebo la metà dei partecipanti è morta entro 60 giorni dai primi sintomi di COVID-19. L’assistenza ospedaliera e le regolari pratiche messe in campo dai medici non sono state sufficienti. Il range dei pazienti sottoposti a sabizabulina ha invece visto ridursi il tasso di mortalità al 20 per cento.
Proprio quest’ultimo parametro ha indotto il comitato di controllo indipendente a interrompere i test per puntare a sveltire i processi di autorizzazione emergenziale.
Gli studi finora illustrati non sono stati portati avanti solo dagli Stati Uniti bensì svolti su dei volontari presenti in Bulgaria, Colombia, Messico, Argentina e Brasile contagiati sia dalla variante Delta che dalla variante Omicron. Secondo l’azienda quindi le procedure descritte possono essere applicate a prescindere dalle varianti infettanti.
Quello che ancora non sappiamo
Veru però non ha diffuso ulteriori informazioni sui trial clinici. Mancano all’appello specifiche informazioni sulle condizioni dei pazienti, sul numero di giorni trascorsi in terapia intensiva, sulla durata in generale del ricovero e sugli interventi svolti dai medici (es. manovre d’intubazione).
L’unica cosa che sappiamo con certezza è che il farmaco era stato somministrato una volta al giorno per un massimo di 21 giorni e che l’azienda entro fine mese incontrerà i responsabili della FDA.
Allo stato attuale delle cose insomma non è possibile fare previsioni accurate su quando il trattamento sarà disponibile negli ospedali e ancor meno su un suo possibile impiego in Italia. Se le pratiche oltreoceano continuassero a produrre evidenze analoghe a queste tuttavia i tempi dei protocolli di approvazione potrebbero ridursi anche nel nostro Paese.
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