Usa e Ue si arrendono alla Cina?

Felice Bianchini

20/10/2021

La situazione dalle parti di Taiwan si fa sempre più calda. Le pretese di Pechino, se soddisfatte, causeranno disagi economici prima che politici. Ecco come e perché l’Occidente potrebbe arrendersi.

Usa e Ue si arrendono alla Cina?

Nell’ultima settimana c’è stata un escalation di tensione tra Cina e Taiwan. Il presidente cinese, Xi Jinping, ha dichiarato che l’annessione dell’isola di Formosa (per gli amici Taiwan) prima o poi sarà completata, in nome del progetto di riunificazione cinese, la «Grande Cina Unita».

È infatti da quando i nazionalisti cinesi l’hanno scelta come rifugio, dopo aver perso contro Mao nel 1949, che Taiwan segue una traiettoria parallela rispetto alla Repubblica Popolare.

Tuttavia, le ragioni dell’interesse cinese verso Taiwan non riguardano solo un più o meno alto orgoglio nazionale e senso di unità. Anche questioni di portafoglio alimentano le tensioni e l’attrazione di Pechino verso Taipei, questioni che riguardano anche Usa e Ue, nella cornice dell’intreccio di interessi della Globalizzazione.

Le nuove tensioni, l’appoggio russo e l’ambiguità Usa

Tutto è cominciato il 9 ottobre, quando in un discorso pubblico Xi Jinping ha rivendicato l’appartenenza di Taiwan alla Cina, definendola una questione interna che si risolverà entro un decennio - e che non ammette ingerenze esterne.

A stretto giro è arrivata la risposta della Presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, che ha ribadito l’autonomia dell’isola, distante poco meno di 200 chilometri dal Dragone. A parole è decisa, ma in quanto a politica di difesa Taipei non è preparata, con un esercito minuto e attrezzature facilmente distruttibili.

Nel frattempo, nello spazio aereo di identificazione taiwanese, l’aeronautica cinese ha mostrato i muscoli (come spesso fa), con circa 150 velivoli inviati nel giro di quattro giorni.

La Russia, per bocca del Ministro degli Esteri, Lavrov, ha dichiarato che la premessa di qualsiasi presa di posizione è l’appartenenza di Taiwan alla Cina.

Gli Usa, dal canto loro, portano avanti da tempo una strategia di ambiguità: negli anni ’70-’80, prima con Nixon, poi con Reagan, hanno riconosciuto come «vera Cina» la Repubblica Popolare con capitale a Pechino; al contempo, però, hanno concesso a Taiwan fornitura d’armi e intervento in caso di attacco.

Alcuni sondaggi indicano che il popolo e una parte del congresso americano vedrebbero con favore un intervento aperto in difesa di Taiwan. Chi fa affari è invece preoccupato e preferirebbe lasciare le bocce ferme finché si può.

Semiconduttori: il nuovo petrolio che ha reso grande Taiwan

Ma cos’è, a parte la generica difesa della libertà, che rende un’isola poco più grande della Sicilia così importante? La risposta è un qualcosa di molto piccolo, ma molto richiesto: i semiconduttori, o microchip.

Taiwan è in vetta al settore dei semiconduttori, grazie alla sua Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), che rifornisce aziende del mondo della tecnologia, tra cui giganti come Intel e Apple.

I chip sono piccoli circuiti, basati sul silicio, che regolano i flussi di elettricità, al fine di gestire, come un sistema nervoso, il processamento, la trasmissione e l’archiviazione di dati.

Sono come delle materie prime - dunque fondamentali - per prodotti come le auto, gli smartphone, i computer e tutti i prodotti che necessitano di un «cervello» per processare dati.

Questa importanza in settori di mercato che pervadono la vita quotidiana, dal lavoro alla vita sociale, come anche - non meno importante - i sistemi di sicurezza nazionale è valso loro il titolo di «nuovo petrolio».

A parte Samsung, che assicura una fetta di mercato alla Corea, tutti gli altri big della telefonia - e non solo - esternalizzano la produzione dei semiconduttori. Buona parte di queste commesse le riceve TSMC, che detiene circa il 60% del mercato di fabbricazione e assemblaggio, mentre il design e i software sono in mano agli Stati Uniti.

La crisi dei chip

L’importanza dei chip è venuta fuori sempre di più nell’ultimo anno, dopo che i lockdown hanno ridotto la propulsione produttiva dell’Asia nel settore, in una fase in cui la domanda di chip è in aumento, per via delle innovazioni (5G) e in una certa misura delle stesse restrizioni, che hanno aumentato il tasso di digitalizzazione dei rapporti sociali e di lavoro.

Per colpa di questi problemi di approvvigionamento, aziende come Stellantis hanno ridotto la loro produzione in maniera drastica.

Come detto, dalle sorti del mercato dei semiconduttori dipende anche la nostra vita quotidiana. L’Ue importa alta tecnologia, televisori e telefoni: uno dei suoi più importanti fornitori è la Cina.

Quest’ultima non ha un livello di produzione di chip adeguato a coprire il volume di domanda per i suoi prodotti ed è quindi costretta da qualche tempo a importare la differenza, superando anche le importazioni di petrolio.

Come il petrolio, i chip dipendono da poche fonti, per via degli ingenti investimenti richiesti per avviare un’attività nel settore. Questa carenza di offerta, però, crea non pochi problemi.

Elon Musk, dal canto suo, durante il Tech Week 2021, si è detto ottimista rispetto alla crisi dei semiconduttori, definendola di breve termine. Ciò che lo rassicura è la costruzione di fabbriche di chip che è in corso - non solo da parte della TSMC.

La ricerca dell’autosufficienza Ue e Usa

Tra i provvedimenti presi durante l’amministrazione Trump spiccano limitazioni ai rifornimenti di semiconduttori per la Cina, facendo leva sulla dipendenza della TSMC da software Usa. Queste misure hanno danneggiato Huawei, il colosso digitale cinese che è stato uno degli idoli polemici dell’ex Presidente americano.

Perdere Taiwan potrebbe aprire a ritorsioni nel senso opposto. In ogni caso, renderebbe ancora più dipendenti Usa e Ue dalle importazioni cinesi.

L’idea che a Taiwan si verifichi la stessa transizione che avvenne per Hong Kong, ossia la soluzione «un paese, due sistemi», non sembra piacere agli stessi taiwanesi.

Il nuovo presidente Biden ha dunque due strade (posto che Pechino, come lascia intendere a parole, faccia sul serio): difendere Taiwan apertamente, oppure lasciare che la Cina la faccia propria.

Nella seconda ipotesi, sarebbe fondamentale sciogliere i nodi tra l’economia cinese e americana, puntando sulla produzione di semiconduttori in Occidente, visto che, attualmente, Ue e Usa pesano poco.

Dalle ultime dichiarazioni di Biden si evince che l’obiettivo è aumentare la produzione in casa, seguendo dunque la seconda strada. Un tempo la vetta del mercato apparteneva agli Usa: sembra Biden voglia riprendersi quel primo posto. Tra le idee c’è anche l’apertura di stabilimenti Intel in Ue.

L’Europa deve decidere cosa fare da grande, visto che ha anche qualche player su cui investire, come STMicroeletronics (azienda franco-italiana all’undicesimo posto nella classifica dei produttori). Ovviamente, le aziende europee non vedono del tutto di buon occhio l’espansione degli americani.

In ogni caso, le parole positive della Merkel, in visita da Draghi, rispetto a una produzione europea di chip, alimentano l’idea che Ue e Usa vogliano fare da sé. Se dovesse diminuire la dipendenza dalle importazioni asiatiche (non certo domani mattina), l’Occidente potrebbe finire per girarsi dall’altra parte e lasciare che la Cina si prenda Taiwan.

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