Cina e Usa bilanciano assenza ed eccesso di liquidità con il rubinetto dell’emergenza, lasciando che il cosiddetto mercato colpisca nel mucchio. Le vittime? Cripto e il Mr. Smith della favola retail
Ciò che realmente accade sul mercato è invisibile agli occhi. Ma per nulla poetico. Non esiste un Piccolo principe del Qe. In compenso, esiste un equilibrio tanto sottile quanto potente in grado di mantenere in piedi un mercato il cui grado di indebitamento e leverage fa impallidire il grande reset del 2008.
Bastano questi due grafici
per capire cosa stia accadendo, poiché fanno riferimento a quanto accaduto in Cina e negli Usa nel breve lasso di tempo fra giovedì e venerdì scorsi, ben nascosto nei meandri più oscuri della finanza. Nel giorno in cui la Pboc rompeva anche gli ultimi indugi e tagliava i tassi di prestito su tutte le scadenze, di fatto aprendo le paratie del credito, l’overnight repo del Dragone ha registrato il suo record assoluto di partecipazione, sfondando i 5 trilioni di yuan (788 miliardi di dollari) di controvalore assegnati in asta a fronte di titoli in garanzia. A certificarlo, il China Foreign Exchange Trade System.
Tradotto, la sete di liquidità in Cina aveva raggiunto la soglia della disidratazione terminale. Non a caso, la Banca centrale è intervenuta. Quasi scientificamente. Quasi chirurgicamente. Quasi in un chicken game con il proprio sistema finanziario, tenuto in sospeso sul baratro dell’insolvenza come il pilota resta incollato al sedile in vista del precipizio, paralizzato da un misto di orgoglio e terrore. Nemmeno a dirlo, ha vinto il Partito. Rimasto incollato al volante. In contemporanea, mentre Wall Street sanguinava, il reverse repo della Fed di New York segnava un nuovo record con 1,706 trilioni di dollari in controvalore di utilizzo.
Il tutto ben lontano dalla scadenza di fine mese o fine trimestre o fine anno. Era un normalissimo 21 gennaio, ultima sessione settimanale. Tradotto, a differenza che in Cina, il sistema finanziario Usa annega ancora in un oceano di liquidità. Nonostante il presunto taper, nonostante i ribilanciamenti delle riserve dei Treasury. Tanta, tantissima liquidità. La quale però viene collocata a livello record in una facility che offre lo 0,05% di rendimento, piuttosto che fluire - anche solo in parte - nel rito pagano del buy the dip borsistico. Nessuno ha intenzione di utilizzare quella liquidità in eccesso per un po’ leverage ulteriore che sostenga gli indici sui minimi. Meglio lo 0,05% della Fed.
Garantito. Sicuro. Quasi sigillato, perché per 24 ore quel denaro resterà fuori dalle imboscate del mercato. Depositato senza possibilità di prelievo fino al giorno dopo. Quasi rassicurante. Perché il mondo là fuori fa paura. E ha le sembianze di questi grafici,
dai quali si desume in maniera abbastanza intuitiva chi stia pagando il prezzo dell’inevitabile gocciolio che si crea nel travaso di liquidità da vaso comunicante dei due grandi elefanti nelle stanzetta. Il primo grafico mostra chiaramente come se a guadagnare i titoli di giornale ci sta pensando il -14% dai massimi del Nasdaq, il Russell 2000 sta facendo peggio con il suo -18% e oltre, mentre il Dow Jones si limita per ora a un -6,75% ma lo stesso Standard&Poor’s 500 comincia a flirtare con la correzione ufficiale, segnando a oggi -8,1% dai massimi.
E chi piange? Il secondo grafico parla chiaro, da solo. Mr. Smith e il suo conto titoli, lo stesso fatto ricco dagli short squeezes della Robinhood and Reddit Army su GameStop e AMC, ora piange. E comincia a farlo preoccupato. Perché la smart money pare poco propensa a partecipare alla festa di cambio stagione, intenta com’è a intasare il reverse repo della Fed in attesa del tonfo vero. Del vero minimo da comprare con il badile. Quello che potrebbe spedire Mr. Smith sotto un ponte, vedendosi magari pignorata la casa. Lui che già sognava le ville in Florida per Natale che Bud Fox prometteva agli operai della Blue Star Airline.
Ed ecco che il terzo grafico mostra invece la vittime più illustre, sistemica e politica di quanto sta accadendo ai due capi del mondo nel sancta sanctorum della liquidità: le criptovalute, il cui market cap ha patito un’emorragia da 1 trilione di controvalore a causa della panic liquidation indotta dalla Fed. E la correlazione appare chiara dall’immagine: le criptovalute sono solo una funzione alternativa ma di fatto parallela dell’espansione di bilancio da Qe del sistema cui si contrappongono? Forse sì, forse no. Una cosa è certa: a molti fa comodo che il dubbio e la paura si insinuino nell’opinione pubblica.
La questione qui non è di valutazione, né di sdoganamento nel portfolio da parte di soggetti sempre più istituzionali o mainstream: è lo status di bene rifugio. E, soprattutto, quello di hedging reale contro l’inflazione, il vecchio fantasma tornato ad agitare il lenzuolo. Quei tonfi di Borsa sono tutto tranne che un altro 2008, bensì perdite di rubinetti troppo utilizzati e che giocoforza devono alternare aperture alluvionali a chiusure più o meno drastiche. Per questo gli Usa giocano a war games con la Russia, sperando in un effetto warfare sul Pil in stagnazione: perché la Cina, lungi dall’essere un vero nemico, ad oggi è ancora forzatamente il compagno di bevute cui sorreggersi per cercare di stare in piedi. E attraversare la strada seno e salvo. Con tanti saluti a Robinhood e alla rivincita del Davide retail sul Golia della speculazione.
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