Nel comparto green si cambia nome ma non portfolio, dove restano i titoli legati a fossile e minerario. Ma se scoppia il bubbone, le emissioni Ue per finanziare il Recovery Plan che fine faranno?
Il primo scricchiolio è arrivato un paio di settimane fa, quando le autorità tedesche e statunitensi hanno accesso i riflettori su possibili attività di greenwashing legate a DWS, l’unità di assets management di Deutsche Bank. Il segreto di Pulcinella. ovviamente. All’epoca, però, fece comodo ridimensionare il tutto, puntando il dito sui precedenti del colosso bancario teutonico e la sfilza di multe collezionate Oltreoceano, dai subprime in poi.
Come dire, il comparto ESG è sano, bello e sostenibile. Sono i soliti tedeschi a rovinare tutto. Non a caso, a stretto di giro di posta, ecco che l’Ue confermava come sarebbe divenuta il più grande emittente al mondo di green bond, un diluvio di carta verde quantificabile in 250 miliardi di euro di controvalore entro il 2026 per finanziare la parte del Next Generation Eu dedicata alla transizione ecologica.
Nubi all’orizzonte sparite, se un’entità con rating morale prima che creditizio come l’Unione Europea entra all-in nella partita, significa che si tratta di cosa buona e giusta. Oltre che fonte di salvezza per pinguini e foche monache.
Poi, però, qualcosa va fuori controllo. Mezza Europa riceva a casa la bolletta dell’elettricità e scopre di dover affrontare un vero e proprio salasso: l’inflazione sarà anche transitoria, come ripete a macchinetta Christine Lagarde, nel frattempo però infligge colpi di bazooka al conto corrente. E strizza ulteriormente i margini di aziende già alle prese con colli di bottiglia della supply chain che hanno spedito i prezzi alla produzione alle stelle, di fatto rendendo pressoché automatico un adeguamento autunnale al rialzo lungo tutta la filiera. Fino al consumatore finale, lo stesso che si è ritrovato in mano un ciuffo di capelli dopo aver aperto la bolletta.
Ed ecco allora che il dubbio torna a insinuarsi, questa volta in maniera più ampia e a livello politico-culturale: davvero questa ossessione verde farà del bene all’economia? Non si starà un po’ esagerando con la dittatura ESG, tanto nobile sulla carta quanto costosa in termini applicativi? Non a caso, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha cominciato a mettere pesantemente le mani avanti: Lo scorso trimestre la bolletta elettrica è aumentata del 20%, questo trimestre aumenta del 40%. E ancora: Poi, succede perché il prezzo del gas a livello internazionale aumenta. Se l’energia aumenta troppo di costo, le nostre imprese perdono di competitività e i cittadini, soprattutto quelli di reddito più basso, faticano ulteriormente per pagare beni primari come energia e gas... Dobbiamo ricordarci che c’è una transizione sociale che deve andare di pari passo con la transizione ecologica.
Perché un tale livello di allarme, vista la convinzione della Bce riguardo la transitorietà del fenomeno? Certo, una bolletta pesante in un momento simile appare prospettiva sgradevole ma se si tratta soltanto di un trimestre, a fronte della salvezza degli orso polari, forse una messa in discussione simile appare eccessiva. Oppure no? No. Perché nel medesimo giorno in cui il ministro Cingolani scoperchiava il vaso di Pandora parlando a un convegno della Cgil in Liguria, il Wall Street Journal si divertiva a piantare un primo, proverbiale chiodo nella bara della bolla ESG. Il quotidiano finanziario Usa, tra i più entusiasti della rivoluzione verde in finanza, ha infatti deciso di dare un’occhiata all’ultimo rapporto sul comparto stilato da Morningstar.
E dopo essere rabbrividito, ha deciso di prendere tre casi fra i più eclatanti per scolpire nella pietra un concetto potenzialmente tombale: l’ESG ha pesantemente operato come mezzo di re-branding per fondi di investimento che stavano patendo esiziali fughe di investitori, questo senza cambiare minimamente i propri portfolios di detenzione in ossequio proprio ai criteri di sostenibilità. Detto fatto, pur mantenendo nei libri titoli di aziende del settore fossile, il solo aver aggiunto green o sustainable alla vecchia denominazione ha garantito un inflow di capitali da record.
E questo grafico
mostra quanto la dinamica del re-branding di massa sia letteralmente esplosa di pari passo con la mania ESG e l’intervento sempre più massiccio nel business da parte di soggetti istituzionali. Come l’Ue, appunto. I numeri parlano chiaro: 35 dei 64 fondi che hanno cambiato nome in ossequio all’ESG dal 2013 a oggi stavano patendo continue redemptions da parte dei clienti nei tre anni precedenti al re-branding. Una volta completato il processo di mutazione, 13 di loro sono immediatamente tornati all’attivo. E questi grafici
mostrano i casi più eclatanti. Ad esempio, l’American Century Fundamental Equity Fund oggi si chiama Sustainable Equity Fund, lo USAA World Growth Fund è per tutti lo USAA Sustainable World Fund mentre il Putnam Multi-Cap Growth Fund adesso si fa chiamare Putnam Sustainable Leaders Fund.
Nel contempo, però, è cambiato solo il nome. Lo USAA Sustainable World Fund detiene infatti ancora oltre 100 milioni di controvalore in securities di 47 aziende del ramo dei combustibili fossili, mentre il Sustainable World Fund continua a mantenere nei libri azioni di Rio Tinto e altre aziende minerarie. D’altronde, il giochino funziona. L’American Century Investment Fundamental Equity Fund aveva patito outflows per quattro anni di fila prima del re-brand del 2016: da allora, gli inflows hanno superato quota 1,7 miliardi di dollari. Il tutto, continuando gelosamente a detenere titoli di ConocoPhillips. D’altronde, questa tabella
relativa ai principali azionisti dell’ETF di riferimento del comparto ESG parla chiaro. Come i conti del Putnam Sustainable Leaders Fund, il quale dal cambio di denominazione nel 2003 ha visto i propri assets crescere del 66% a 6,5 miliardi di dollari, stando a dati dello scorso 30 giugno.
Ma non basta. Perché anche l’altro fondo, il Putnam Sustainable Future Fund, ha segnato un +93% nel medesimo arco temporale, raggiungendo i 649 milioni di AUM (Assets-Under-Management). Entrambe i fondi sono andati in outperformance sia sui relativi benchmark che sullo Standard&Poor’s 500 negli ultimi tre anni. Il segreto di Pulcinella, in effetti. Tutti lo sapevano sul mercato, tutti hanno fatto finta di niente per mesi. Anzi, gettandosi a capofitto nel business prima che si inflazionasse troppo.
Ora, però, l’uscita prima della Sec contro DWS e poi del Wall Street Journal in modalità elefante nella cristalleria contro l’intero settore, pare prodromo a un disinnamoramento a tempo di record. E si sa, i grandi amori, quando finiscono spesso di tramutano nei casi di odio più feroce. Domanda: se qualcuno avesse deciso di far esplodere la bolla, cosa succederebbe al programma di emissione record dell’Ue? E, contestualmente, a una della basi del finanziamento del Recovery Plan su cui tanto fa affidamento il PNRR italiano?
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