Col mid-term trasformato in referendum sull’aborto (e anti-Trump) e l’economia che lega le mani alla Fed, la Casa Bianca sorride. Pronta a scaricare Kiev e le sue conseguenze su un’Ue tornata divisa
Un tragico errore. Così, a botta calda, Joe Biden ha commentato la sentenza della Corte Suprema che rende incostituzionale l’aborto negli Stati Uniti. Ma il presidente non ha perso tempo. E dopo aver promesso la fornitura a livello federale della pillola abortiva, ha invitato tutti gli americani indignati e preoccupati per il ribaltamento della sentenza Roe vs Wade del 1973 ad agire di conseguenza.
Come? Semplice: Fatemi essere molto chiaro e non ambiguo. L’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di una donna a scegliere è che il Congresso ripristini le protezioni precedenti come legge federale. Nessuna azione esecutiva del presidente può farlo, ha spiegato Biden. E ancora: E se al Congresso, come sembra, mancano i voti per farlo ora, gli elettori devono far sentire la loro voce. Questo autunno, dovete eleggere più senatori e rappresentanti che codificheranno ancora una volta il diritto di una donna a scegliere in un legge federale. La mia amministrazione utilizzerà tutti i suoi poteri legali appropriati. Il Congresso deve agire e voi potete agire. Et voilà, sul voto di mid-term di inizio novembre non incombe più l’ombra lunga dell’inflazione e di un gradimento del Presidente al minimo storico del 22% ma, bensì, la luce brillante di un vero e proprio referendum sul diritto all’aborto. E anti-Trump, stante il parere vincolante e decisivo dei giudici della Corte Suprema da lui nominati nella sentenza shock e la dichiarazione altrettanto fulminante dell’ex inquilino della Casa Bianca: E’ la volontà di Dio.
Di meglio non si poteva chiedere. Anzi, sì. E Joe Biden nella giornata di ieri ha potuto contare anche su quello. Questi tre grafici
certificano infatti la combo perfetta dal punto di vista economico: se l’indicatore proxy di recessione di Bloomberg segnala infatti l’ineluttabilità di una contrazione dell’economia Usa all’orizzonte, le altre due immagini sono ancora più benauguranti per il Presidente. Il mercato prezza infatti un ciclo di normalizzazione dei tassi della Fed molto più breve del previsto, addirittura in area di picco attorno proprio al voto di medio termine, mentre il reversal sentiment che certifica un’inversione a U della Banca centrale già oggi accorcia e di molto l’attesa per un taglio dei tassi. Insomma, esattamente ciò che serviva: recessione breve, quasi fulminea che leghi le mani a Jerome Powell e raffreddi un po’ l’inflazione e prospettive di politica monetaria che aprano scenari tali da garantire i prodromi per un rimbalzo di mercato. Il quale, non a caso, negli ultimi tre giorni ha conosciuto una serie di short squeezes di tale potenza da garantire un’uscita lampo dal bear market che aveva colpito Wall Street.
E l’Europa? Si prepara - tra il rassegnato e l’inconsapevole - al ruolo di vittima sacrificale che le competeva fin dall’inizio. Quantomeno, dall’inizio della crisi ucraina. La quale, molto probabilmente, ora vedrà Joe Biden uscire di scena sempre più in punta di piedi ma anche sempre più speditamente, assorbito come sarà a riportare l’America nel presente, dopo il salto nel passato di 150 anni imposto dalla Corte Suprema. E l’America non farà domande. Sia perché emotivamente colpita, sia per l’eco globale e mediatica di lungo termine che quanto accaduto assumerà, sia per la non secondaria motivazione che vede lo statunitense medio totalmente all’oscuro persino di dove si collochi geograficamente l’Ucraina. Esattamente come accadde con l’Afghanistan post-11 settembre.
E finora, al netto dell’eterodirezione di un’Europa divenuta pavlovianamente a trazione Nato, Washington ha concretamente fatto ben poco. Sanzioni farsesche su diamanti e caviale, uno stop alla deroga per il pagamento di cedole sovrane che l’EMEA Credit Derivatives Determinations Committee ha colto al volo come alibi per non indire l’asta sui credit default swaps (evitando, di fatto, il tanto declamato e atteso default russo), sanzioni ad personam tanto generiche quanto inutili e tre forniture di armamenti che, lungi dal muovere concretamente gli equilibri del conflitto, hanno però garantito al Congresso il maggior stanziamento militare dai tempi del Vietnam e all’industria del warfare affari d’oro. Insomma, un capolavoro di ipocrisia e pragmatismo. Forte di un presupposto cardine: gli Usa non sono energeticamente dipendenti dalla Russia.
E l’Europa, invece? Questa infografica
parla più di mille parole: se Mosca spende circa 840 milioni di dollari al giorno per finanziare le operazioni in Ucraina, l’export di globale di energia non solo copre interamente quella spesa ma lascia nelle casse russe anche 90 milioni di surplus. Non a caso, sull’ultimo numero dell’Economist oggi in edicola campeggia un articolo dal titolo difficilmente incline a interpretazioni: Russia’s economy is back on its feet. L’Ue, invece, è a terra. Come certificato dal totale fallimento del Consiglio Europeo appena concluso, dal quale paradossalmente è uscito un solo risultato: la candidatura dell’Ucraina all’ingresso nell’Unione, esattamente ciò che Usa e FMI volevano fin dall’inizio.
In compenso, i rapporti con la Russia appaiono sottozero e il rischio di un inverno con il gas razionato sempre più probabile, come certificato al Financial Times dal numero uno dell’IEA. E che la situazione stia mutando in tempi record, lo mostra appunto il nulla di fatto rispetto alla proposta italiana di un vertice straordinario a luglio per discutere del price cap sul gas russo. Tutto rinvio a ottobre. Tradotto, mai. Perché riserve e stoccaggi o si riempiono nei mesi estivi per arrivare all’autunno almeno al 90% oppure il rischio di razionamenti, distacchi e black-out pare certificato.
Il tutto con la Russia che contemporaneamente guadagna ogni giorno posizioni sul terreno, chiude accordi energetici con i Brics e costringe l’Europa all’ennesima minaccia vuoto, come certificato dalla fulminea revisione delle sanzioni riguardanti l’enclave di Kaliningrad appena decisa a Bruxelles. Non a caso, è tornato l’ordine sparso. Con la Francia che non ha mai rotto del tutto i rapporti con Mosca, la Germania che ha già alzato il livello di allerta energetica al secondo step e l’Italia che millanta certezze ma sconta un livello mai così basso nei rapporti esiziali con il Cremlino.
Se occorreva azzoppare il terzo incomodo per liberare il campo e creare i prodromi dello scontro per l’egemonia fra Usa e blocco sino-russo, l’Ucraina ha operato da trappola in maniera perfetta. Un cavallo di Troia degno di Henry Kissinger al suo meglio. Il vaso di coccio Europa è rimasto schiacciato fra i due vasi di ferro. Ora, tocca raccogliere ciò che resta dopo l’impatto. E per l’Italia rischiano di essere soltanto rovine: diplomatiche, economiche e fiscali. Perché a Bruxelles, la Germania non ha detto no solo al tetto sul gas. Ma anche a ogni nuova tentazione di mutualizzazione del debito mascherata da Recovery Plan energetico. Ora tocca alla Bce. Se anche Lagarde chiuderà i rubinetti, ci resterà solo la bandiera ucraina da sventolare. Sulle macerie.
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