Ron DeSantis batte Trump nei sondaggi e lo “spinge” a candidarsi prima del voto

Glauco Maggi

03/08/2022

La nomination nel Gop di Donald Trump è sempre più a rischio. I sondaggi premiano il candidato repubblicano DeSantis.

Ron DeSantis batte Trump nei sondaggi e lo “spinge” a candidarsi prima del voto

La decisione, se vera, che Donald Trump intenda annunciare ufficialmente la sua candidatura per il 2024, appare dettata dall’urgenza. E l’urgenza è dovuta alla crescente debolezza dell’ex presidente, che traspare sondaggio dopo sondaggio sulla sua popolarità, confrontata con quella degli avversari di partito che si stanno scaldando a bordo ring: in evidenza c’è soprattutto Ron DeSantis (governatore della Florida), seguito da Mike Pence (ex vicepresidente), Mike Pompeo (ex segretario di Stato), Nikki Haley (ex ambasciatrice all’Onu), e i senatori Tom Cotton (Arkansas) e Ted Cruz (Texas).

Il folto gruppo è un potenziale vantaggio per Trump, in quanto fraziona tra diversi papabili la percentuale di votanti repubblicani - circa la metà - che hanno già deciso di voltare le spalle al presidente sconfitto nel 2020. La dispersione rischia di far ripetere l’esperienza del 2016, quando gli elettori del Gop non riuscirono a coagularsi attorno a un candidato alternativo a Trump, evidentemente sottovalutandolo. La lezione l’appresero invece bene i Democratici, che nel 2020, di fronte al rischio di dare la vittoria al socialista Bernie Sanders, il cui radicalismo avrebbe aiutato Trump, si turarono il naso e, collettivamente, nominarono Biden che poi vinse.

Quest’anno la situazione è diversa per Trump. Intanto, non è più una sorpresa per i media del mainstream, che lo catapultarono al successo per gonfiare i propri rating, convinti che non avrebbe vinto. E poi ci sono i Never Trump espliciti e schierati, moltiplicatesi rispetto alla frangia del 2016, che hanno una maggiore influenza sull’opinione pubblica repubblicana.

Ma è la scadenza dell’imminente voto di novembre, soprattutto, che pone un ostacolo inevitabile e insormontabile sulla sua marcia alla nomination. Le elezioni sono per il rinnovo della intera Camera (435 deputati) e di un terzo del Senato (34 senatori su 100), e saranno un evento decisivo per la direzione politica del Paese nel 2023 e 2024. Ci sarà un presidente azzoppato dalla perdita della Camera (data per certa) e forse pure del Senato. Quindi, mentre Biden è destinato alla totale irrilevanza legislativa sua e del suo partito, il Gop uscirà comunque rafforzato dalle urne.

Ciò creerà un diverso rapporto con Trump, perché gli eletti Repubblicani potranno brillare di luce propria, mentre l’ex presidente perderà il capitale politico di influenza che ha speso durante questa campagna. Tanto maggiore sarà il peso del Gop di per sé, tanto minore sarà la rilevanza di Trump, soprattutto se i suoi “protetti” non si affermeranno. In altre parole, Trump ha davanti un bivio cieco: se il Gop vince di poco, sarà accusato di aver spinto i cavalli perdenti; se il Gop vince alla grande, è segno che non ha bisogno di lui. Con entrambi gli esiti, la politica imporrà la sua legge che, in America, è sinonimo di ricambio ineluttabile nelle cariche esecutive: chi si ricorda di George Bush o di Barack Obama?

Per ora la maggioranza degli americani ha imparato a conoscere i suoi due ultimi presidenti, Trump e Biden, e non li vuole alla Casa Bianca per un secondo mandato. Biden - media dei sondaggi nazionali di Rcp a fine luglio- dopo un anno e mezzo al potere è visto favorevolmente dal 39,6% (con un minimo del 31% del sondaggio Quinnipiac University del 20 luglio) e sfavorevolmente dal 55,6%, mentre Trump è al 40,1% (con un minimo del 38% nel sondaggio Winston Group) e al 55,7%, rispettivamente. Il tempo gioca contro entrambi, e non solo per l’età: il presidente va verso gli 80 (il prossimo novembre) e Donald ne ha appena compiuti 76.

Mentre una ricandidatura del Democratico è da escludere per dimostrata inadeguatezza di leadership e gestionale, i giochi tra i Repubblicani sono ancora aperti. Trump ha mostrato una accertata efficacia governativa ma, insieme, scompensi caratteriali autodistruttivi culminati con il suicidio politico della “insurrezione” del 6 gennaio 2021, dopo la sconfitta alle urne. La sua stella sopravvive grazie al sentimento anti-élite e anti-establishment che lo connette ancora oggi a una porzione minoritaria, ma importante dell’elettorato conservatore. Quanto durerà questo feeling?

Le sorti future del partito Repubblicano, ossia le chance di riconquistare la Casa Bianca tra 27 mesi, sono legate a un indispensabile ricambio di leadership, perché Trump sarebbe il solo nome che produrrebbe una valanga di “no” nel Paese, simile se non superiore agli 82 milioni di voti pro Biden, ma in realtà contro di lui, nel 2020. Questo rinnovamento è predicato con toni più o meno espliciti dagli stessi vertici interni al Gop e dai fiancheggiatori esterni di maggiore peso.

«Non odio quell’uomo, ma è ora che Trump appenda il cappello e salpi verso il tramonto», ha twittato Elon Musk a metà luglio, dopo aver rivelato di aver votato per la prima volta repubblicano appoggiando la candidata ispanica nel proprio distretto texano. E Mitch McConnell, capo della minoranza repubblicana al Senato, pochi giorni fa ha fatto una previsione sibillina, rifiutandosi di dire che avrebbe appoggiato una discesa in campo dell’ex presidente: «Penso che avremo un campo affollato di candidati del Gop per la presidenza».

Alcuni sono già usciti allo scoperto, come detto sopra, e compaiono nei sondaggi che si stanno intensificando e che decolleranno in pieno dopo il voto di medio termine. Finora, la figura politica più nitida e promettente tra gli sfidanti di Trump è di sicuro Ron DeSantis.

Nel sondaggio del New York Times-Siena College del 5-7 luglio, il campione di elettori repubblicani si è detto favorevole a Trump per il 49%, con il governatore della Florida DeSantis secondo con il 25%. Sembra un grande vantaggio di Trump, ma il suo margine è inferiore a quello di Hillary Clinton rispetto a Bernie Sanders all’inizio del 2016. Il resto dei favori dei Repubblicani è andato per il 7% a Cruz, per il 6% a Pence e a Haley e per il 2% a Pompeo.

Dal sondaggio di Yahoo News/YouGov del 24-27 giugno Trump era uscito vincitore con il 45% davanti a DeSantis, per soli nove punti, al 36%. Nel successivo sondaggio Wdiv/Detroit News del 13-15 luglio tra 500 elettori delle primarie repubblicane del Michigan, Trump ha superato DeSantis al 45% contro il 42%, un pareggio statistico.

Un precedente sondaggio, Granite Poll del 16-20 giugno, su 318 elettori repubblicani nel New Hampshire, il primo Stato della nazione a tenere le primarie, ha mostrato addirittura un 39% per DeSantis e un 37% per Trump. Ciò in contrasto con i 43-18 e 47-19, a favore di Trump contro DeSantis nei sondaggi corrispondenti di luglio e ottobre del 2021. Il trend gioca a sfavore di Trump, e ciò spiega la sua premura di candidarsi per cercare di stopparlo.

Da notare che Trump è un nome familiare per il 100% dei cittadini ovunque in America, mentre la Florida è l’unico Stato in cui gli elettori hanno la stessa piena conoscenza di entrambi i candidati. Lì, un sondaggio di Victory Insights su 600 elettori repubblicani intervistati dal 13 al 14 luglio ha mostrato DeSantis con il 51% dei voti e Trump con il 33%. Quando è stato poi chiesto di dire verso quale candidato si sentivano più propensi, DeSantis è stato citato dal 61%, contro il 39% per Trump. Un parallelo sondaggio dell’inizio di luglio su 656 repubblicani, sempre in Florida e condotto da Blueprint Polling, ha confermato primo DeSantis con il 51%, contro il 39% di Trump.

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