“Pensi di fare un figlio?”: in Italia le donne costrette a scegliere tra lavoro e famiglia

Teresa Maddonni

08/03/2021

Donne costrette a scegliere tra figli e lavoro. La maternità diventa tabù nei colloqui e colpa. Il diritto al lavoro è spesso negato. Ne abbiamo parlato con Giorgia D’Errico, scrittrice e Coordinatrice della Segreteria Generale CGIL, e con la sindacalista Barbara Pettine attivista di Clap.

 “Pensi di fare un figlio?”: in Italia le donne costrette a scegliere tra lavoro e famiglia

“Pensi di fare un figlio?” una domanda che molte donne sentono ancora rivolgersi durante un colloquio di lavoro. Le donne sono infatti spesso costrette a scegliere tra lavoro e maternità, questa vissuta ancora come colpa e tabù.

Come si può parlare di occupazione femminile se le donne per lavorare devono rinunciare o rimandare la maternità, o viceversa, specie se precarie?

Nel giorno della Festa della Donna sono questi i temi su cui ci si dovrebbe interrogare e capire cosa non è stato fatto e cosa bisognerebbe fare per le donne nel nostro Paese perché la parità di genere non resti un semplice slogan e lettera morta.

Ne parliamo con Giorgia D’Errico scrittrice, Coordinatrice della Segreteria Generale CGIL già autrice di Femminile Plurale e dal 25 febbraio in libreria con Maschile Singolare entrambi pubblicati per Round Robin Editrice, e con Barbara Pettine sindacalista e attivista delle Clap Camere del Lavoro Autonomo e Precario e di Non Una di Meno.

Donne e lavoro: la maternità come colpa

Si parla spesso di donne e lavoro, ma non si dice che proprio in nome di quest’ultimo la maternità viene vissuta spesso come colpa, non si dice che le donne sono troppo spesso costrette a dover mentire sul loro desiderio di diventare madri per ottenere un impiego.

Voglio partire raccontando una storia, quella che è stata condivisa due settimane fa sulla pagina Instagram di Non una di meno. È la testimonianza di una giovane madre che si è vista rifiutare una supplenza in una scuola pubblica per aver chiesto, prima di firmare il contratto, le ore di allattamento, un suo diritto. Un fatto di una certa gravità laddove negare un diritto a una donna madre e lavoratrice non può essere giustificato dall’emergenza di cattedre vacanti in cui versa la scuola italiana.

“Riesco a comprendere la situazione di precarietà ed emergenza che c’è nella scuola, ma trovo sia discriminatorio.”

Esordisce così Giorgia D’Errico quando le racconto questa storia che forse pochi hanno letto ma che è emblematica della condizione della donna, madre o aspirante tale, ma prima di tutto lavoratrice, nel mercato del lavoro italiano.

“È paragonabile alla donna che durante un colloquio di lavoro si sente chiedere se ha intenzione di avere un figlio, cosa che ai colleghi maschi non viene chiesto. Ci troviamo nella scuola dove c’è la precarietà e se c’è un momento in cui si è più deboli è proprio quando si è precari.”

“Pensi di avere un figlio?”: dimissioni in bianco informali, nel pieno rispetto della legge, laddove sulla carta sono state eliminate, ma che nell’atteggiamento di alcuni recruiter permangono. La donna che lavora e che è in età fertile viene percepita chiaramente come una minaccia in molte occasioni alla produttività e alla continuità lavorativa.

“Le dimissioni in bianco sono state eliminate con una mozione trasversale bipartisan nel secondo governo Prodi. Con il rientro di Berlusconi, e l’allora ministro Sacconi, sono state reintrodotte. Sono state eliminate poi nuovamente dopo una battaglia politica e parlamentare.”

Aggiunge D’Errico commentando quella domanda sconveniente:

“Mi viene chiesto, e quindi entrando anche nella sfera personale e privata, se ho intenzione di fare un figlio. Se questo elemento diventa discriminatorio per la mia assunzione rappresenta a tutti gli effetti una dimissione in bianco ante litteram perché sono costretta a risponderti di no, devo nascondere di essere incinta laddove la maternità è un diritto sacrosanto.”

Ecco allora che la maternità diventa colpa nei confronti del datore di lavoro e anche nei confronti di sé stesse. Barbara Pettine ci porta a riflettere su un aspetto a suo avviso poco raccontato di come le donne vivono la maternità:

“La pressione sulla donna che sceglie la maternità è una cosa che dal punto di vista psicofisico porta a stati acuti di depressione e stress. Questo vale sia per le donne che scelgono la maternità temendo per il loro lavoro, sia per le donne che scelgono di non avere figli. Sulla donna viene scaricata la colpa nei confronti del datore di lavoro, perché gli crea un problema. Ci dicono che si fanno pochi figli, ma poi vi è una forte colpevolizzazione della maternità sul luogo di lavoro.”

La maternità, sostiene Giorgia D’Errico, dovrebbe essere pensata come un’opportunità per la collettività e solo un ripensamento culturale in tal senso potrebbe portarci a fare un passo avanti per le donne in Italia:

“Noi siamo indietro perché la maternità viene gestita sul singolo non viene pensata come un momento di investimento sociale. Non è una diminutio, ma è un’occasione di vita, di crescita personale e che mi consente di contribuire alla società in senso più ampio. Se la vivessimo come momento sociale, la maternità potrebbe essere vista come un’opportunità e non come un momento che toglie del tempo al lavoro e alla collettività.”

Se sono le donne a lasciare il lavoro per i figli

E così la donna che sceglie di avere un figlio e di mettere su famiglia troppo spesso si ritrova a dover abbandonare il lavoro.

L’anno della pandemia ha messo in evidenza come la conciliazione tra famiglia e lavoro sia spesso appannaggio delle donne.

Le donne che troppo spesso sono precarie e hanno stipendi più bassi dei loro colleghi maschi. I dati di dicembre sulla perdita dei posti di lavoro in Italia, su 101mila 99mila femminili, mettono in risalto la drammatica condizione delle donne lavoratrici nel nostro Paese.

“In quei dati c’è tutta la parte legata ai contratti a termine, spesso affidati alle donne. Dobbiamo chiederci se tutta la questione del contratto a tempo determinato che abbiamo affrontato con il decreto Dignità - commenta Giorgia D’Errico - quindi con dei limiti rispetto alla possibilità di rinnovarlo possa essere realmente una soluzione, non ho una risposta, stiamo facendo una riflessione in questo senso.”

Le donne spesso scelgono il part-time per conciliare famiglia e lavoro il che contribuisce a definire quel fenomeno conosciuto come gender gap o gender pay gap più nello specifico.

“Laddove il part-time è una scelta della donna è un’opportunità. Se la subisco viene meno l’opportunità e penso al part-time involontario. Dobbiamo partire da opportunità paritarie. Devo avere strutture a sostegno delle famiglie, come gli asili nido, spesso carenti soprattutto al Sud.”

E aggiunge d’Errico:

“Bisogna capire se siamo arrivati a un punto in cui tutto è subito dalla donna o se le scelte possiamo equamente distribuirle. 10 giorni di congedo di paternità sono visti come una grande conquista: per me c’è qualcosa che non va. Quella della cura familiare deve diventare una cultura trasversale.”

A pagare troppo spesso il prezzo della scelta della maternità rispetto al proprio posto di lavoro sono le lavoratrici precarie. La legge di maternità infatti, sottolinea la sindacalista Barbara Pettine, non copre tutte le donne:

“Le precarie hanno la maternità in rapporto a un certo numero di settimane lavorate precedentemente, a un certo numero di contributi versati. Non è vero che abbiamo il diritto per la maternità generalizzata. Se do l’80% della retribuzione a una persona che guadagna 300 euro al mese le do in verità una miseria”.

Quello che si dovrebbe garantire per legge alle donne, sottolinea Pettine e che Non una di Meno chiede a gran voce, è un’indennità universale data alle donne indipendentemente dal fatto che lavorino o meno.

Occupazione delle donne: gli incentivi a pioggia non servono

Come si può parlare di incentivi all’occupazione delle donne se poi le donne stesse non vengono messe nella condizione di poter lavorare? Gli incentivi a pioggia non servono e anche su questo D’Errico e Pettine sono d’accordo.

“Il problema del nostro Paese” - sottolinea Giorgia D’Errico- “è che qui si lavora a compartimenti stagni. Gli incentivi all’occupazione femminile, a pioggia, fino a oggi non hanno portato ai risultati sperati, e non ci saranno se non si lavora su un modello di sviluppo unito alle questioni legate all’occupazione.”

E così anche Barbara Pettine:

“Se guardiamo i dati dell’occupazione negli ultimi 20 anni non è cambiato nulla. Le aziende prendono gli incentivi poi successivamente o ti mandano via o ti mettono nelle condizioni di andare via. Servono solo a dare soldi alle aziende.”

E allora è il modello che va ripensato, sostenere la genitorialità, sostenere le donne che possano lavorare senza dover a un certo punto rinunciare al lavoro per i figli, o decidere di rimandare la maternità per non compromettere la propria occupazione.

Barbara Pettine su questo punto è convinta che molto debba essere fatto in termini di congedi parentali:

“Il congedo parentale è coperto fino a 6 anni del bambino con un’indennità pari al 30% della retribuzione: le madri single non se lo possono permettere. Con gli stipendi che abbiamo adesso, con la povertà degli stipendi femminili, il 30% è troppo poco. Biosognerebbe alzare l’indennità al 60 o 70%.”

La cura dei figli proprio per questo motivo diventa appannaggio della donna. Gli uomini, che spesso guadagnano di più delle loro mogli o compagne, non accedono al congedo parentale e quindi spesso sono le donne a sceglierlo, finanche poi alla rinuncia al lavoro.

“In Svezia i congedi parentali sono pagati all’80% dello stipendio e il 70% degli uomini li utilizzano, in Italia solo il 7%. Servono congedi con una indennità più alta”- conclude Barbara Pettine - “non solo aiuterebbe le donne che non rischierebbero i pochi soldi che già guadagnano, ma incentiverebbero gli uomini ad accedervi. Magari nei primi tre anni del bambino ci vorrebbe del part-time incentivato all’80 % anche se lavoro il 60. I periodi di malattia de figlio dovrebbero essere retribuiti. Andrebbe ripensata tutta la struttura per non mettere più le donne nella condizione di dover scegliere.”

Non pari opportunità, ma opportunità paritarie

Per le donne opportunità paritarie da cui partire e non pari opportunità per superare il gender gap e dare slancio all’occupazione femminile. Questa è la formula di Giorgia D’Errico che con Femminile plurale ha raccontato storie di donne lavoratrici.

“Questo è un Paese che ancora non ha una cultura dell’uguaglianza di genere. In riferimento al gender gap: nessuno mi ha ancora dato una spiegazione di carattere macroeconomico del perché tra un uomo e una donna, con stessa formazione ed esperienza, debba esserci una disparità salariale. Una delle risposte che ho ricevuto è che la donna è più a rischio di assenza per la cura dei figli e cura dei genitori. È uno stereotipo.”

Troppo spesso, sottolinea D’Errico nella sua riflessione, le donne devono dimostrare sul luogo di lavoro di più del loro collega maschio laddove impera lo stereotipo di genere:

“Se la donna prende appunti durante una riunione è la segretaria di qualcuno” - sottolinea la scrittrice - “se sei un uomo e fai la stessa cosa sei uno molto diligente, attento alla discussione. La donna deve essere sempre associata ad altro, affibbiata a qualcuno.”

E ha aggiunto:

“In Femminile Plurale questa cosa è emersa bene: le donne che ho intervistato, iper formate, raccontavano proprio la difficoltà di far capire chi fossero. Maschile Singolare invece da poco in libreria, è speculare al primo e racconta dieci storie di uomini che lavorano. Storie molto particolari per provare a vedere di fronte ai temi della conciliazione come si orientano gli uomini.

D’Errico sottolinea ancora una volta la necessità per superare le differenze di partire da un punto comune:

“Questa è una di quelle cose che Sara Gama, capitana della Nazionale italiana di calcio femminile, ha sottolineato ovvero che le azzurre si sono qualificate ai mondiali perché sono stati loro forniti gli stessi strumenti di partenza dei colleghi maschi.”

Le donne dovrebbero poter partire dallo stesso livello, conclude la scrittrice, riappropriarsi della parte femminile che il mercato del lavoro vuole loro strappare e difenderla a denti stretti.

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