La Consulta torna ancora una volta sull’articolo 18, intervenendo su un altro tassello della legge Fornero in materia di disciplina dei licenziamenti.
Grazie alla sentenza n.125 della Corte costituzionale pubblicata ieri 19 maggio, i giudici del lavoro dovranno limitarsi ad accertare se il fatto all’origine del licenziamento sussista o meno, senza dover anche mostrare che, affinché venga disposta la reintegra, lo stesso fatto non sussista in maniera «manifesta».
Già nell’aprile dello scorso anno la Consulta si era pronunciata con una sentenza che aveva imposto al giudice di ordinare la reintegra e la misura indennitaria, in caso di accertato licenziamento illegittimo per ingiustificato motivo oggettivo (sentenza 59/2021). La decisione dichiarava illegittima la parte dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori in cui disponeva che il giudice «possa» e non «debba» disporre la reintegra.
A cadere sotto la scure del giudizio di incostituzionalità è lo stesso comma 7 del suddetto articolo 18; in particolare, l’attenzione della Corte si concentra su quella parola, «manifesta», parte in cui si impone al lavoratore di provare il carattere manifesto dell’insussistenza del fatto ai fini della reintegrazione.
Le norme stabilite della legge Fornero avevano di fatto reso molto difficile, se non quasi impossibile, la reintegra del lavoratore ingiustamente licenziato per motivi economici. Oggi, quindi, si profila una ulteriore chance al lavoratore di riavere il suo posto.
La svolta di questo nuovo intervento sull’articolo 18 riguarda però solo gli assunti in aziende con almeno 15 dipendenti e prima del 7 marzo 2015. Vediamo perché.
Licenziamenti Economici e articolo 18: cosa cambia
Come detto, per i lavoratori si apre una nuova opportunità di tutela. Ma attenzione, qui parliamo di licenziamenti economici e di lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 da aziende con più di 15 dipendenti.
Questo perché, quanto stabilito dalla Corte costituzionale vale solamente per chi ha diritto all’applicazione dello Statuto dei Lavoratori, dunque per chi è stato assunto con i vecchi contratti, o chi, godendo di una certa forza contrattuale, è riuscito a farsi inserire la clausola di applicazione dell’art.18 nel contratto di assunzione. Assunzioni antecedenti, quindi, al Jobs Act del governo Renzi che, come ricordiamo, con i contratti a tutele crescenti ha rimosso l’applicazione dell’articolo 18 per tutti i nuovi assunti, dal 2015 in poi.
Attualmente nel licenziamento per giustificato motivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, lo Statuto dei Lavoratori appresta, a seconda delle dimensioni dell’azienda, diverse tutele.
Quando sia manifesta l’insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento, opera la tutela reale, cioè la reintegra sul posto di lavoro affiancata dalla condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria, pari al massimo a 12 mensilità di retribuzione, per il periodo dal licenziamento alla reintegra.
Nelle altre ipotesi, il giudice dichiara risolto il rapporto e condanna il datore di lavoro al pagamento di un risarcimento, dalle 12 alle 24 mensilità di retribuzione (tutela obbligatoria).
Perché non serve il requisito della manifesta insussistenza
Approfondiamo le ragioni della sentenza della Corte costituzionale. L’incostituzionalità, come detto, ha colpito la sola parola «manifesta», che precede l’espressione «insussistenza del fatto» posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative.
Cosa significa? Il giudice non è tenuto ad accertare che l’insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico sia «manifesta». Il fatto, ovvero la ragione del licenziamento o sussiste, oppure no. Non ci sono possibili alternative.
Il criterio della manifesta insussistenza, ha precisato la Corte, «risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento».
Sempre secondo la Consulta, la sussistenza di un fatto è nozione difficile da graduare, perché evoca «un’alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi».
Non è possibile fare analisi eccessivamente cavillose sulle ragioni del datore di lavoro. Se non esistono motivi per licenziare, visto che l’onere della prova del fatto che ha causato il licenziamento spetta al datore di lavoro, allora il lavoratore deve riavere il suo posto.
Il giudice non deve anche accertare che il fatto sia anche «manifestamente» insussistente. Basta che sia solo insussistente: se non sussiste, deve reintegrarlo.
Gli effetti della Sentenza sui licenziamenti economici
Il tema di cui stiamo disquisendo è quello dei licenziamenti per motivazione economica, che un tempo erano possibili solo in presenza di una crisi economica dell’impresa.
Il nuovo orientamento, e la Cassazione su questo si è già abbondantemente espressa, è quello di considerare valido il licenziamento economico anche solo per una mera riorganizzazione dell’impresa, quindi anche se il datore di lavoro decide di riorganizzare la produzione, oppure è impossibilitato a riutilizzare il lavoratore licenziato ricollocandolo altrove.
L’effetto della nuova sentenza della Consulta potrebbe dunque essere quello di ampliare la quantità dei lavoratori che, vincendo una causa di lavoro, potrebbero essere reintegrati. Ricordiamo però, come già precisato, che questo è possibile grazie e anche per effetto di un’altra sentenza, sempre della Corte Costituzionale dello scorso anno, la decisione n.59 del 2021.
In quel caso, la Corte ha cancellato un’altra parte della stessa norma, laddove si diceva che il giudice «può» reintegrare se accerta la manifesta insussistenza del fatto. In quella occasione è stato specificato che «no», il giudice non può ma «deve» reintegrare.
Con la recente sentenza, la Consulta completa il chiarimento della norma: il giudice deve reintegrare sempre se il fatto non sussiste.
© RIPRODUZIONE RISERVATA