L’azienda di abbigliamento sportivo è una delle più colpite a causa della catena di approvvigionamento in paesi costretti a pagare dazi altissimi.
Giovedì scorso Donald Trump ha annunciato nuovi dazi su importazioni da oltre 100 Paesi. Il Regno Unito è stato colpito con una tariffa del 10%, mentre per gli altri le percentuali risultano ben più elevate. I Paesi dell’Unione Europea (Italia compresa) sono stati colpiti con un dazio del 20%, ma per altri la situazione è più grave: la Cina subirà un ulteriore 34% oltre al 20% già in vigore, il Vietnam arriva al 46%, Taiwan al 32%, il Giappone al 24%, l’India al 26% e la Corea del Sud al 25%.
Una misura che ha generato un forte scossone sui mercati finanziari globali, con effetti ancora visibili. Le borse internazionali hanno chiuso in netto calo, bruciando miliardi di dollari in poche ore. Anche l’inizio della nuova settimana è stato negativo, con tutti gli indici in ribasso. Il presidente americano ha invitato alla calma, sottolineando come questo periodo di tensione fosse previsto e rientri in una strategia più ampia. Secondo Trump, per raggiungere determinati obiettivi economici è inevitabile affrontare alcune conseguenze. Ha inoltre annunciato che oltre 50 Paesi si sarebbero già detti disponibili a negoziare con gli Stati Uniti i nuovi dazi imposti.
Tra le aziende più colpite c’è Nike, leader mondiale dell’abbigliamento sportivo e tra i brand più riconosciuti al mondo. Dopo l’annuncio dei dazi, le azioni di Nike Inc hanno perso il 15% del loro valore. Goldman Sachs ha identificato l’azienda come una delle più esposte a causa della sua catena di approvvigionamento internazionale.
Niente stabilimenti negli USA ma aumento delle vendite altrove
Nike si rifornisce principalmente da Paesi come Vietnam, Cina e Indonesia, ora soggetti a dazi molto elevati. Questo colpo ai margini potrebbe costringere l’azienda a rivedere i propri prezzi negli Stati Uniti, con conseguenti rincari. Secondo l’economista Peter Schiff, Nike non aprirà stabilimenti produttivi sul suolo americano per aggirare i dazi, in quanto i costi di produzione interni sarebbero comunque superiori al peso delle nuove tariffe.
La strategia probabile sarà dunque quella di aumentare i prezzi negli Usa, accettare un possibile calo delle vendite sul mercato interno e puntare maggiormente sui mercati esteri, dove il potere d’acquisto resta più elevato. Schiff ha scritto su X: «Nike non costruirà fabbriche negli Stati Uniti per produrre sneaker. Ciò aggiungerebbe più costi dei dazi del 40%. Il risultato sarà che negli Stati Uniti saranno vendute meno sneaker a prezzi molto più alti.»
Nike produce circa il 50% delle sue calzature in Vietnam, oggi colpito da un dazio del 46%. Altri Paesi coinvolti nella sua catena di produzione sono la Cina, con un’aliquota complessiva del 54%, e l’Indonesia, al 32%.
Si tratta di un prelievo estremamente alto, che obbligherà probabilmente Nike ad aumentare i prezzi. Molti consumatori americani potrebbero quindi non potersi più permettere scarpe e abbigliamento del marchio. E Nike non è l’unica: anche altri brand americani come Adidas, Under Armour e Columbia dipendono fortemente dalla produzione in Paesi asiatici a basso costo. Le loro azioni sono crollate dopo l’annuncio. Resta ora da capire se seguiranno la strategia di Nike, se tenteranno un ritorno alla produzione interna o se sceglieranno di aspettare possibili accordi tra Trump e i Paesi colpiti dai dazi.
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