Le voci di pressing sul membro del board Bce per il dicastero economico parlano chiaro: il governo Meloni non farà la guerra all’Europa. Anzi, vorrebbe metterla al timone. E con Salvini in quarantena
Se il marziano di Ennio Flaiano avesse letto alcuni quotidiani italiani e i titoli delle loro prime pagine nel day after elettorale, sicuramente penserebbe a un presidente Mattarella in versione Von Hindenburg, intento a guardare sconsolato dalle finestre del Quirinale le SA nostrane che già sfilano per le strade di Roma.
Chiaramente, fra la narrazione e la realtà corre l’oceano. L’Italia a urne chiuse è stretta fra due ossessioni, entrambe tanto paranoiche quanto ridicole. Ancorché complementari. Da un lato molti leader ridimensionati dagli scrutini proseguono con una sorta di sindrome definibile da geometra Calboni a Courmayeur, ovvero un mix di millanteria e mitomania simile a quella sfoggiata dal personaggio fantozziano, quando sbarca nella località sciistica e finge di conoscerne il jet-set.
Dall’altro, ecco farsi largo un altrettanto ridicolo afflato neo-resistenziale, un no pasaran da ZTL e weekend a Sabaudia talmente inconsistente e incoerente già nei toni da risultare farsesco. Quantomeno, quando si scomodano paragoni che decenza (e caduti) vorrebbe fossero lasciati riposare in pace nel sacrario della Storia. Sintesi di queste due patologie da superiorità morale tradita è l’idea che un governo di centrodestra a guida Meloni ci porti allo scontro con l’Europa e ci metta nelle condizioni di collezionare procedure di infrazioni come figurine Panini, fino al redde rationem finale di un Italexit, lo stesso che lo spoglio elettorale - in realtà - ha già ridimensionato e non poco nella sua probabilità potenziale.
E a confermare tutto questo ci pensano almeno tre elementi. Il primo è la quarantena da cordone sanitario istituzionale che parrebbe già in vigore nei confronti di Matteo Salvini, cui Giorgia Meloni avrebbe precluso l’accesso a ministeri di peso. Un qualcosa che, se conferma dai fatti, avrebbe un’impronta di chiara pre-condizione. E il doppio timbro di Quirinale e Palazzo Chigi, proprio in modalità di rassicurazione verso Bruxelles. Secondo è il ruolo di primissimo piano, quasi da manovratore nemmeno più tanto occulto (non avendone, tra l’altro. il physique du role) di Guido Crosetto, imprenditore, uomo di mercato e portatore sano di un DNA esente al 100% da retaggi missini. Terzo e più importante, quantomeno nell’immediatezza del messaggio che si vuole inviare all’esterno, il continuo richiamo a Fabio Panetta come candidato favorito per la guida del MEF.
Un profilo che più draghiano non si può. Già direttore generale di Bankitalia, l’economista romano di formazione londinese è oggi membro del Consiglio direttivo della Bce, all’interno del quale svolge H24 il ruolo di colomba. Da almeno sei mesi, infatti, Panetta chiede a gran voce non solo la prosecuzione di un programma di acquisto obbligazionario che operi da sostegno dei debiti sovrani più esposti ai marosi del mercato ma anche un nuovo Recovery Fund focalizzato sull’emergenza energetica. Difficile dipingere un simile profilo come anti-europeista o sovranista.
Apparentemente, Panetta avrebbe risposto picche alle profferte giunte da Roma. Tanto che il toto-ministri avrebbe già partorito il nome di Domenico Siniscalco, ministro dell’Economia e delle Finanze dal luglio 2004 al settembre 2005 con Berlusconi premier e prima direttore generale del Tesoro, come alternativa. Ma poco importa, paradossalmente. Come si suol dire, è il pensiero che conta. E il solo fatto che un governo bollato come nemico dell’Europa pensi di mettere al timone dell’economia un uomo che ritiene il ruolo della Bce esiziale per i destini dell’Italia e del suo debito monstre, svela chiaramente tutti i limiti di certi allarmismi.
Fabio Panetta crede ciecamente nel ruolo salvifico dei programmi dell’Eurotower per stabilizzare le dinamiche di debito e le cosiddette anomalie dei rendimenti, è un apologeta del finanziamento diretto dei deficit attraverso il ruolo taumaturgico delle emergenze cicliche in veste di alibi. è un ultras della mutualizzazione del debito e degli eurobond, rifugge ogni tentazione nel limitare le detenzioni bancarie di debito e, soprattutto, tifa spudoratamente per un Patto di stabilità meno nordico. Praticamente, Panetta sta alla Bundesbank come l’aglio a Dracula.
Ora, al netto del diavolo che si nasconde nei dettagli, davvero è pensabile che un governo non ancora nato sia così luciferino da aver prodotto una strategia tanto sottile per minare l’Europa dall’interno, utilizzando un suo fiero scudiero come cavallo di Troia? Ci vuole fantasia. Tanta. Il problema, però, sta tutto nella conventio ad includendum che unisce centrodestra e centrosinistra nel mantenere vive le rispettive narrativa, ricetta certificata per far aumentare ulteriormente l’astensione al prossimo passaggio elettorale.
Perché se l’area cosiddetta progressista ha bisogno del babao sovranista e neo-fascista come unico collante per un’armata Brancaleone di ricette, identità e impostazioni, il centrodestra non può permettersi di rendere troppo palese agli occhi dell’elettorato il fatto che un uomo come Panetta al MEF equivale a dar vita a un Draghi-bis mascherato, poiché a fronte dello smaccato europeismo rivendicativo in fatto di sostegni da Francoforte, il nostro eroe è chiaramente favorevole anche a ogni tipo di condizionalità richiesta come garanzia.
E con la riforma del MES da approvare a livello parlamentare entro fine anno (sotto un governo che si vorrebbe sovranista, somma cattiveria che Mario Draghi ha voluto servire come regalo di benvenuto ai successori) e con lo scudo anti-spread, il TPI, che se attivato di fatto genererebbe un commissariamento diretto dei conti italiani fra Bce e Commissione, ecco che un profilo come quello di Fabio Panetta poco si presta all’immagine di barricate in fiamme lungo via XX Settembre. Insomma, il basso profilo scelto da Giorgia Meloni dopo il trionfo parla chiaro. Nessuna pacchia finita per l’Europa. Anzi, almeno un paio di ramoscelli d’ulivo già in viaggio verso Nord.
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