Si può svolgere attività lavorativa dopo essere andati in pensione? Sì, ma in alcuni casi ci sono dei limiti da rispettare.
Generalmente pensioni e redditi da lavoro sono cumulabili. La legge, infatti, consente (salvo in alcuni casi specifici) di riprendere a lavorare dopo la pensione senza dover temere un taglio dell’assegno.
Differentemente, non si può andare in pensione continuando a lavorare come dipendente. Per quanto possa sembrare un paradosso, tanto la legge Amato quanto quella Dini successiva hanno ribadito il principio secondo cui al momento del pensionamento bisogna aver cessato qualsiasi attività da lavoratore dipendente, rassegnando le dimissioni nel rispetto dei termini imposti dalla normativa.
Dopo l’avvenuto pensionamento, invece, si può riprendere a lavorare (tanto come autonomo che da dipendente), cumulando i redditi da pensione con quelli da lavoro. Una valida occasione per coloro che ad esempio prendono poco di pensione e quindi sono costretti per necessità a ricercare un nuovo lavoro, o anche solo per chi è spinto dalla voglia di rimettersi in gioco.
Il vantaggio è duplice. Non solo infatti si hanno due entrate mensili, ma una volta ripreso a lavorare riprendono anche i versamenti di contributi all’Inps, con la possibilità di beneficiare di un aumento dell’assegno grazie al cosiddetto supplemento di pensione.
Come vedremo di seguito, però, questa opportunità è totalmente preclusa a chi ha fatto accesso alla pensione attraverso il meccanismo delle “quote” (100, 102 e 103) introdotte in questi ultimi anni per rendere maggiormente flessibile il sistema previdenziale.
A tal proposito ecco una guida dedicata a tutti i pensionati che vogliono continuare a lavorare; qui un approfondimento su regole e adempimenti, nonché su cosa succede ai contributi versati dopo la pensione.
Le Quote
Come anticipato, esistono dei casi in cui chi è andato in pensione in anticipo non può lavorare nel tempo che lo separa dal raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia o anticipata.
È il caso, ad esempio, di chi è andato in pensione con Quota 100 (in vigore fino al 2021), Quota 102 (in vigore solo nel 2022) e Quota 103 (in vigore nel 2023 e 2024) . Una regola introdotta appositamente per favorire il ricambio generazionale nel mercato del lavoro e che consente a coloro che accedono a queste misure di pensionamento anticipato di svolgere solamente prestazioni occasionali, nel limite di 5.000 euro l’anno.
Attenzione poi a coloro che vanno in pensione con Quota 41, soluzione oggi riservata ai precoci. Per questi, infatti, vale il divieto assoluto di cumulo tra i redditi da lavoro e pensione che vale fino a quando non vengono maturati i requisiti per l’accesso alla pensione anticipata.
Quindi, chi ci va esattamente con 41 anni di contributi deve attendere 1 anno e 10 mesi per riprendere a lavorare se uomo, 10 mesi se donna.
Smettere di lavorare per andare pensione
Quando si va in pensione, quindi, oltre a requisiti contributivi e anagrafici c’è un’altra condizione da soddisfare: l’obbligo di cessazione dell’attività lavorativa.
Questo è stato introdotto dalla Legge Amato del 1992 e confermato - ma solo per le pensioni liquidate con il sistema contributivo - dalla Legge Dini del ‘95. Lo stesso principio è stato ribadito anche dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 5052/2016 con la quale è stato confermato l’obbligo di cessare l’attività lavorativa subordinata per vantare il proprio diritto alla pensione.
Tale regola interessa solamente i lavoratori dipendenti, in quanto per gli autonomi e i parasubordinati non c’è alcun obbligo di cessazione della propria attività lavorativa per accedere alla pensione.
Tuttavia anche per i dipendenti ci sono delle precisazioni da fare. Ad esempio, bisogna sottolineare che il divieto di lavorare dopo la pensione non è assoluto: la non sussistenza del rapporto di lavoro dipendente, infatti, deve essere verificata al momento della decorrenza della pensione.
Ciò significa che - rispettando determinate condizioni - il pensionato può riprendere a lavorare una volta che gli è stato riconosciuto il diritto alla pensione, anche perché l’articolo 19 della legge 133/2008 ha eliminato qualsiasi limite per il cumulo esistente tra la pensione e i redditi derivanti dall’attività lavorativa, sia per quanto riguarda la pensione di vecchiaia che per quella di anzianità.
Cosa cambia per la pensione d’invalidità
Se invece chi va in pensione è anche titolare dell’Assegno ordinario di invalidità raggiunto con più di 40 anni di contribuzione, in caso di continuazione dell’attività lavorativa perde:
- il 25% della pensione se il reddito è superiore a 31.127,72 euro;
- il 50% della pensione se il reddito è superiore a 38.909,65 euro.
Se nonostante queste due trattenute l’assegno previdenziale risulta comunque superiore alla pensione minima Inps si applica:
- una nuova trattenuta per coloro che hanno anzianità contributiva inferiore ai 40 anni, pari al 50% della differenza tra la pensione minima e la pensione (per i lavoratori dipendenti) che scende al 30% per gli autonomi;
- nessuna trattenuta per chi ha più di 40 anni di contributi.
Cumulo redditi da lavoro e pensione di reversibilità
Infine concludiamo analizzando quello che succede ai titolari di pensione di reversibilità che nel contempo hanno dei redditi da lavoro. Questi non perdono il diritto alla pensione qualora nel loro nucleo familiare ci siano figli minori o studenti o inabili.
Se così non fosse la pensione si riduce:
- del 25%, in caso di reddito annuo compreso tra 23.345,73 euro a 31.127,64 euro;
- del 40% per redditi annui sopra i 31.127,64 euro ma entro i 38.909,55 euro;
- del 50% per redditi annui superiori a 38.909,55 euro.
Trattenute sullo stipendio del pensionato
Se si decide di lavorare dopo la pensione ovviamente le retribuzioni ricevute si cumuleranno al reddito della pensione. Come abbiamo anticipato in apertura per chi lavora dopo il pensionamento non è previsto un taglio della pensione spettante, ma sui redditi prodotti sia da pensione che da lavoro vanno pagate le tasse.
Il rischio che in molti casi i pensionati che lavorano possono correre è quello di vedersi aumentare l’aliquota fiscale applicata sui redditi proprio a causa del cumulo del reddito da lavoro e di quello della pensione perché si potrebbe slittare nello scaglione di reddito successivo.
Se il lavoratore pensionato rientra in uno dei casi appena elencati, ovvero quando stipendio e pensione sono cumulabili entro un certo limite, è il datore di lavoro stesso a dover trattenere dallo trattenimento delle somme non cumulabili per poi provvedere al versamento di quanto trattenuto dall’ente previdenziale che eroga la pensione.
Per calcolare l’Irpef da pagare è necessario sommare i redditi posseduti. Nel caso del pensionato che torna a lavorare, quindi, bisogna sommare i redditi derivanti dalla pensione, quelli derivanti dal lavoro e gli eventuali altri redditi.
Dal reddito da lavoro dipendente, però, devono essere sottratti i contributi e le imposte già trattenute in busta paga (stesso discorso vale anche sulla pensione da cui vanno sottratte le imposte già trattenute nel cedolino della pensione).
In questo modo si determina il reddito complessivo che è quello su cui, poi, si dovranno pagare le tasse.
Nel dettaglio:
- per redditi fino a 28 mila euro si applica un’aliquota Irpef del 23%
- per redditi che vanno dai 28 mila ai 50 mila euro si applica un’aliquota del 35% ma soltanto sui redditi eccedenti i 28 mila
- per redditi superiori ai 50 mila euro - e solo per la parte che supera tale soglia - si applica l’aliquota del 43%.
Ci sono dei casi, però, in cui della trattenuta sullo stipendio del pensionato se ne occupa direttamente l’ente previdenziale. Nel dettaglio, questo succede nel caso di tardiva liquidazione della pensione, con la quale si opera sugli arretrati, o anche di attività lavorativa che il pensionato svolge all’estero.
Lo stesso accade quando il pensionato è in possesso di redditi da lavoro autonomo.
Chi lavora dopo la pensione versa i contributi?
Naturalmente la ripresa dell’attività lavorativa comporta il versamento dei contributi all’Inps.
Questi permettono al pensionato di aumentare l’importo della pensione che gli viene già riconosciuta, tuttavia la richiesta d’incremento non è immediata.
Si può chiedere l’aumento della pensione grazie ai contributi versati, infatti, solo dopo 5 anni dalla decorrenza della pensione o - ma solamente per coloro che hanno superato l’età pensionabile - dopo 2 anni (ma per una sola volta).
Dopo quanto si può riprendere l’attività lavorativa?
Come abbiamo detto all’inizio dell’articolo, per accedere alla pensione è fondamentale che al momento della decorrenza della stessa non sussista un rapporto di lavoro come dipendente.
Per questo motivo è necessario interrompere qualsiasi rapporto di lavoro in essere al momento della richiesta della pensione; interruzione che deve durare fino alla decorrenza del trattamento previdenziale, che solitamente avviene dopo circa un mese dalla richiesta.
Quindi si può essere riassunti dalla stessa azienda - oppure intraprendere una nuova attività lavorativa - una volta che la pensione viene effettivamente riconosciuta, pur rispettando i suddetti limiti relativi al cumulo dell’assegno previdenziale con i redditi derivanti da attività lavorativa.
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