Chi va in pensione nel 2021 è svantaggiato rispetto a chi ci è andato nel precedente biennio: ecco quanto - a parità di anni e montante contributivo - si andrà a perdere sull’assegno.
Le pensioni per chi smetterà di lavorare nel 2021 saranno più basse rispetto a chi è stato collocato in quiescenza tra il 2019 e il 2020. La conferma ce la dà uno studio realizzato da Itinerari Studi Previdenziali, il quale ha fatto alcune stime riguardo a come i nuovi coefficienti di trasformazione, comunicati con Decreto Ministeriale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale lo scorso 1° giugno, andranno ad influire sugli assegni.
Per capire quanto emerso dallo studio realizzato da Itinerari Studi Previdenziali dobbiamo come prima cosa ricordare come funziona il calcolo delle pensioni per quella parte di contributi maturata dopo il 1° gennaio 1996, data in cui con la Legge Dini si è passati dal calcolo retributivo al contributivo.
Con quest’ultimo, il totale annuo della pensione che si andrà a percepire sarà calcolata moltiplicando la somma dei versamenti contributivi effettuati nel corso della carriera lavorativa - i quali sono accumulati nel montante contributivo, il quale a sua volta viene rivalutato con il passare degli anni - per un coefficiente di trasformazione, il quale è tanto più alto quanto è più elevata l’età del pensionamento. Con questo sistema, quindi, si tende a favorire coloro che vanno in pensione più tardi.
I coefficienti di trasformazione vengono ridefiniti ogni due anni (qui quelli in vigore per il 2021); ed è proprio questo il problema, in quanto ormai da qualche anno è iniziata una parabola discendente che non sembra fermarsi. Questi, infatti, si basano sul calcolo delle aspettative di vita dei contribuenti: più le speranze di vita aumentano e più - a parità di età - i coefficienti di trasformazione diventano penalizzanti.
E anche se l’età per il pensionamento almeno fino alla fine del 2022 non aumenterà, i coefficienti di trasformazione sono comunque diminuiti e maggiormente penalizzanti per i futuri pensionati. Ma quanto, effettivamente, si va a perdere rispetto a chi è andato in pensione tra il 2019 e il 2020? Facciamo chiarezza analizzando i risultati dello studio condotto da Itinerari Previdenziali.
Coefficienti di trasformazione sempre più bassi: quanto perde chi va in pensione nel 2021
Rispetto ai valori utilizzati per il calcolo della pensione - per la sola quota contributiva - per coloro che hanno smesso di lavorare nel biennio 2019-2020, i coefficienti di trasformazione che saranno utilizzati a partire dal 1° gennaio 2021 hanno subito una riduzione che va dallo 0,33% allo 0,72%, ovviamente a parità di condizioni anagrafiche.
Il Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali ha effettuato alcuni calcoli a riguardo. Nel dettaglio, prendendo come esempio un contribuente che ha maturato un montante contributivo di 300 mila euro che decide di andare in pensione nel 2021 all’età di 64 anni ne risulta che questo - per effetto di un coefficiente di trasformazione pari a 5,060% avrà una pensione annua di 15.180 euro lordi. Qualora lo stesso lavoratore fosse andato in pensione nel 2020 avrebbe avuto diritto ad una pensione annua di 15.249 euro lordi, quindi di circa 70,00€ più alta.
Questa differenza è ancora più tangibile per coloro che andranno in pensione a 67 anni. Con la pensione di vecchiaia - a parità di montante contributivo - si perdono infatti 87,00 euro tra il 2020 e il 2021.
Una situazione che andrà sempre peggiorando con il passare degli anni poiché l’aumento atteso delle speranze di vita porterà ad avere coefficienti di trasformazione sempre più bassi per il futuro pensionato.
E se a questo aggiungiamo il crollo del PIL causato dal coronavirus ne risulta che anche il montante contributivo sarà sempre più basso in quanto non ci sarà rivalutazione (o meglio, ci sarà ma con tasso pari a zero); per questo motivo coloro che andranno in pensione nei prossimi anni saranno sempre più svantaggiati rispetto a chi lo ha già fatto.
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