Paradosso Venezuela: perché vuole importare petrolio?

Marco Ciotola

18/06/2018

In piena crisi economica, ora il Venezuela - che ha le maggiori riserve di petrolio al mondo - sembra intenzionato a importarlo. Ma perché?

Paradosso Venezuela: perché vuole importare petrolio?

L’economia del Venezuela continua a mostrare aspetti sempre più critici e al contempo bizzarri.
Il Paese racchiude nel suo sottosuolo le riserve di petrolio più ricche del mondo, eppure sta considerando l’idea di importarlo.

Secondo un report di Reuters, la compagnia petrolifera statale - PDVSA - potrebbe iniziare a raffinare ogni giorno decine di migliaia di barili di petrolio importato.
E ovviamente la domanda sorge spontanea: perché un Paese che possiede enormi quote di riserve petrolifere considera l’idea di importare?

Le difficoltà a produrre

Il problema è che il Venezuela in generale, e PDVSA in particolare, risentono non poco delle politiche del governo attualmente guidato dal presidente Nicolas Maduro.
Secondo i dati riportati da TradingEconomics.com, il Paese ora produce circa 1,5 milioni di barili di petrolio al giorno, in forte calo rispetto ai 2,9 milioni prodotti fino a inizio 2014. Un calo dovuto a una serie di motivi diversi.

In primo luogo, la compagnia petrolifera di stato è mal gestita, con incarichi affidati a politici che spesso hanno la precedenza su ingegneri con esperienza. La conseguenza è che chi ricopre ruoli chiave il più delle volte non è adatto a quel tipo di lavoro.

Al momento in Venezuela risulta difficile per qualsiasi azienda funzionare in modo efficiente per via dell’iperinflazione, ora al 34.458% secondo l’ultima stima, datata 14 giugno 2018 e curata da Steve Hanke, professore di economia alla Johns Hopkins University, che per stimare il tasso prende in esame i prezzi delle merci in Venezuela. La percentuale è in calo rispetto all’oltre 37.000% di inizio mese.

Le sanzioni statunitensi rendono sempre più difficile trovare attrezzature per l’estrazione nel Paese. Trivelle e tubi metallici si consumano rapidamente, perché il petrolio stesso è altamente corrosivo. E, senza parti di ricambio, l’estrazione non può andare avanti.

Ma l’incapacità di estrarre oro nero sul territorio venezuelano non fa differenza per privati e società che hanno un contratto con Caracas per la consegna di carburanti raffinati. Il diesel o la benzina vengono prodotti raffinando il petrolio greggio.

Proprio la necessità di rispettare i contratti è probabilmente la ragione per cui PDVSA potrebbe prendere in considerazione l’importazione di petrolio, che abbonda nel sottosuolo ma non c’è modo di estrarre.
Tuttavia l’ipotesi di “comprare” greggio è solo l’ultima mossa del Paese sudamericano per cercare di far fronte alla tremenda crisi economica.

Le iniziative “grottesche” anti-crisi: togliere zeri dal Bolivares o lanciare il Petro

Altre iniziative, non esattamente convincenti, sono già state prese dal governo Maduro e sono presto giunte all’attenzione della cronaca per la loro natura molto poco convincente.

Tra queste la decisione di rimuovere tre zeri dalla valuta nazionale, il bolivar, al fine di combattere l’iperinflazione (misura in vigore dal 6 giugno). In sostanza, le banconote da 50.000 bolivares sono state sostituite con quelle da 50 e così via anche per gli altri tagli; ma sono in molti ad aver etichettato la misura come “grottesca”, nulla più che una manovra volta a migliorare l’umore dei venezuelani cercando di fargli dimenticare la vera portata dell’inflazione.

E ha fatto discutere non poco anche il lancio di una nuova criptovaluta sostenuta dal petrolio - di nome Petro appunto - con tanto di dettagli su come esattamente la moneta virtuale, sulla falsariga dei Bitcoin, avrebbe funzionato.

Resta da chiedersi quando il regime si renderà conto che espedienti simili sono ben lontani dal risolvere una crisi economica sempre più profonda.

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