Sei curioso di sapere quanto guadagna un tuo collega? Devi sapere però che questa informazione rientra nella tutela della privacy.
Ti sei mai chiesto quanto guadagna un tuo collega? Probabilmente sì, magari per fare un confronto con il tuo stipendio.
Alcuni colleghi non hanno problemi a parlare apertamente della propria busta paga, mentre altri preferiscono mantenere il massimo riserbo su queste informazioni.
Ma è possibile soddisfare questa curiosità chiedendo al datore di lavoro di vedere la busta paga di un collega? La risposta a questa domanda merita di un approfondimento.
È importante sottolineare, infatti, che la normativa in merito al “segreto salariale” è in fase di evoluzione tanto che presto ci sarà l’introduzione di nuove regole, in arrivo direttamente dall’Unione Europea.
Ricordiamo infatti che il 10 maggio 2023 il Parlamento europeo ha approvato la direttiva n. 2023/970 con la quale - al fine di dare attuazione al principio della parità retributiva tra uomini e donne e al divieto di discriminazione - ha scelto di prevedere alcuni nuovi strumenti a tutela dei lavoratori tra cui molti dei quali garantiscono proprio una maggiore trasparenza retributiva.
Per il momento però questa direttiva non è stata ancora recepita in Italia, pertanto per rispondere alla domanda sulla possibilità di “spiare” la busta paga di un collega dobbiamo attenerci a quelle che sono le norme vigenti in materia di tutela della privacy.
Il datore di lavoro non può farti vedere la busta paga di un tuo collega
La risposta è no: non è un vostro diritto conoscere quanto guadagna un vostro collega. Salvo il caso in cui sia il diretto interessato a svelarlo, questa informazione deve restare obbligatoriamente segreta in quanto rientra tra le informazioni protette dalla tutela della privacy.
Il datore di lavoro non può condividere la busta paga di un vostro collega poiché questa è protetta dal cosiddetto “segreto salariale”, che impone la riservatezza sui dati contenuti nel cedolino. La busta paga include informazioni sensibili, come le generalità complete del dipendente, eventuali sussidi, indennità specifiche e l’iscrizione a un sindacato, che devono rimanere strettamente private.
Anche l’importo dello stipendio mensile rientra tra i dati tutelati, poiché, pur non essendo un dato personale in senso stretto, è considerato coperto dall’obbligo di privacy. Per questo motivo, il datore di lavoro non può divulgare questi dati a soggetti diversi dal dipendente interessato.
Cosa cambia con l’approvazione della direttiva Ue
Va subito sottolineato che anche l’approvazione della direttiva Ue, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 7 giugno 2026, non cambia quanto detto sopra visto che il dipendente non avrà comunque diritto a guardare la busta paga di un proprio collega.
La direttiva in oggetto, infatti, non fa altro che riconoscere un diritto all’informazione per i lavoratori, i quali potranno - anche attraverso i loro rappresentanti - ricevere informazioni chiare riguardo ai livelli retributivi individuali e medi, suddivisi per genere, così da verificare se vi è una qualche disparità di trattamento nei loro confronti.
Viene meno qualsiasi possibilità di prevedere un segreto salariale: per questo motivo verranno considerate come nulle tutte quelle clausole contrattuali che vietano al dipendente di divulgare informazioni sulla loro retribuzione o comunque di poterle chiedere rispetto a quanto guadagnano i propri colleghi.
In caso di specifica richiesta, quindi, i datori di lavoro avranno l’obbligo di fornire le informazioni riferite agli stipendi riconosciuti dall’azienda. In particolare la risposta dovrà arrivare entro un termine di 2 mesi e laddove il dipendente dovesse ritenere che le informazioni ricevute siano imprecise o incomplete sarà loro diritto richiedere ulteriori chiarimenti.
Si tratta quindi di un’informazione riferita al complesso dei dipendenti, non individuale: resta così tutelata la privacy del singolo, in quanto non verrà svelato lo stipendio individuale di un dipendente piuttosto che di un altro.
Qual è la finalità della direttiva?
Ricordiamo che il datore di lavoro non può effettuare discriminazioni salariali. Questo significa che può riconoscere uno stipendio differente a due colleghi che svolgono le stesse mansioni solamente nel caso in cui tale disparità di trattamento sia giustificata da ragioni oggettive, ad esempio laddove uno dei due fosse più qualificato, o comunque risulti impiegato in azienda da più anno.
Sono vietate discriminazioni in base al genere, alla religione o ad altri fattori che non incidono sulla prestazione lavorativa. Ma come si fa a rendersi conto se un collega guadagna di più solamente perché è uomo se non è possibile guardare alla sua busta paga? È proprio per ovviare a questo problema, e introdurre un nuovo strumento per il contrasto del gender pay gap, che la direttiva fa cadere ogni possibilità di segreto salariale, dando possibilità al lavoratore discriminato di ottenere un aumento con tanto di risarcimento.
Pertanto, laddove dal confronto ne dovesse risultare una disparità di trattamento, ossia nel caso in cui venisse accertata una qualche forma di discriminazione retributiva, la direttiva riconosce un diritto al risarcimento.
Nel dettaglio, questo avrà diritto a una somma che dovrà comprendere:
- recupero integrale delle retribuzioni arretrate e dei relativi bonus o pagamenti in natura;
- risarcimento per le opportunità perse;
- danno immateriale;
- danni causati da altri fattori pertinenti che possono includere la discriminazione intersezionale, nonché gli interessi di mora.
Quel che è importante è che l’onere della prova grava sul datore di lavoro: qualora dovesse emergere una disparità di retribuzione, infatti, sarà questo a dover dimostrare di aver agito nel rispetto delle norme europee in materia di gender pay gap e trasparenza retributiva.
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