L’OCSE mette in risalto i veri problemi del mercato del lavoro italiano, difficilmente risolvibili con il solo Decreto Dignità. Urge una riforma dei centri dell’impiego e una maggiore attenzione verso le politiche attive per il lavoro.
Il Decreto Dignità promosso da Luigi Di Maio è stato definito dal Ministro del Lavoro come la “Waterloo del lavoro precario”; tuttavia abbiamo già posto qualche dubbio sugli effettivi vantaggi di provvedimenti come quello che ha ridotto a 24 mesi il limite per il rinnovo dei contratti a tempo determinato, con il quale il lavoro precario rischia persino di aumentare.
Il problema è che il Decreto Dignità non affronta quelli che sono i veri problemi del mercato del lavoro italiano, appena riassunti dall’Employment Outlook 2018 pubblicato dall’OCSE. È analizzando questo rapporto annuale, infatti, che si capiscono quali sono gli ostacoli che impediscono al mercato del lavoro di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Ad un primo sguardo, infatti, il mercato del lavoro italiano sembra essere in perfetta salute: numeri in crescita, con un aumento dei posti di lavoro che fa ben sperare per il futuro. Tuttavia, scendendo nel dettaglio si nota che gli stipendi non sono affatto in crescita e che la possibilità di perdere il reddito diventando disoccupati sono ancora elevate.
Troppa insicurezza nel mercato del lavoro italiano
Nel dettaglio, il livello di insicurezza del mercato del lavoro italiano è quarto più alto all’interno dell’area OCSE, dietro solamente a Grecia, Spagna e Turchia.
E non è certamente riducendo il termine per i rinnovi del contratto determinato che si migliora questo dato; anzi, mentre fino ad oggi un lavoratore aveva la certezza - o quasi - di essere impiegato per almeno 36 mesi, con le novità introdotte nel Decreto Dignità c’è il rischio concreto che dopo 24 mesi - o anche 12 vista la reintroduzione delle clausole per il rinnovo - il dipendente venga mandato a casa.
Per maggiori informazioni leggi anche - Contratti a tempo determinato, rinnovo per massimo 24 mesi: è veramente un vantaggio per i dipendenti?
Con questa novità, quindi, la probabilità di perdere il posto di lavoro e restare senza reddito diventerebbe persino maggiore rispetto ad oggi, con il rischio che l’Italia scavalchi Grecia, Spagna e Turchia nella suddetta - poco incoraggiante - classifica.
Crescita sì, ma meno degli altri Paesi
Comunque l’Employment Outlook dell’OCSE ha rilevato una crescita del mercato del lavoro italiano; l’occupazione, ad esempio, nell’ultimo anno è salita del 2,3% (prendendo in considerazione la popolazione di età compresa tra i 15 e i 75 anni) raggiungendo quota 50,9%.
Manca ancora un piccolo passo per arrivare ai livelli pre crisi (51%) ma l’OCSE ha comunque previsto una tendenza positiva per i prossimi due anni quindi il traguardo è vicino.
Il problema è che la crescita ha coinvolto l’intera area OCSE - a conferma che questa dipende da fattori endogeni al mercato - e che l’Italia procede a rilento rispetto agli altri Paesi.
Nonostante la crescita dell’occupazione, infatti, l’Italia è ancora il terzo Paese per tasso di disoccupazione, sceso all’11,2% ma ancora superiore di 4,6 punti percentuali al livello del 2008. A questo poi si aggiunge che in Italia nel 2016 solo 1 disoccupato su 10 ha percepito un sussidio, un dato che è tra i più bassi in Europa.
Siamo ancora lontani quindi a ripristinare la situazione pre-crisi a conferma che obiettivo del Governo sarà quello di pensare a politiche attive al fine di dare un’accelerata all’occupazione.
Salari tra i più bassi dell’area OCSE
Anche se come abbiamo appena visto i numeri del mercato del lavoro sono tutt’altro che negativi - nonostante potrebbero essere migliori - c’è ancora molta preoccupazione per quel che riguarda la qualità dell’occupazione.
Il problema principale riguarda il livello degli stipendi: pensate che mentre nel 2016 si segnalava una crescita del +0,6% dei salari reali, nel quarto trimestre del 2017 questi sono diminuiti del -1,1%.
I motivi sono differenti: dalla stagnazione della produttività all’aumento dei lavoratori con contratti a tempo determinato, o part-time, che percepiscono uno stipendio inadeguato per vivere. Ad essere maggiormente penalizzati sono i lavoratori “svantaggiati”, quali ad esempio le madri, i giovani, gli anziani e le persone affette da disabilità parziali.
Povertà in crescita, i centri per l’impiego devono essere rinnovati
Quanto appena detto in merito al calo del salario reale comporta inevitabilmente un aumento della povertà; secondo l’Employment Outlook, si segnala una crescita - poco incoraggiante - del 13,6% delle famiglie con un reddito inferiore al 50% di quello medio.
Il divario tra i gruppi svantaggiati e il resto dei lavoratori è il quarto più alto tra i Paesi dell’OCSE e la creazione dell’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) è solo il primo passo verso la risoluzione del problema. L’Italia infatti deve investire maggiormente nelle politiche attive procedendo con una riforma dei centri per l’impiego così da renderli effettivamente funzionali al progetto.
Nel dettaglio, la priorità deve essere assicurare una maggiore coordinazione tra Stato e Regioni, pensando allo stesso tempo di come fornire ai centri per l’impiego personale più adeguato.
I centri per l’impiego devono saper intervenire nella maniera più precoce possibile, sviluppando una strategia d’intervento che consenta al lavoratore di registrarsi non appena ricevuta la comunicazione del licenziamento e all’ufficio di favorire il suo più rapido reinserimento lavorativo.
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