Il Decreto Dignità introduce nuove regole per il contratto a tempo determinato: rinnovo impossibile oltre i 24 mesi, mentre dal 12° mese in poi bisogna giustificare la propria decisione. E se le nuove regole svantaggiassero i lavoratori?
Il Decreto Dignità introduce diverse novità in ambito fiscale e lavorativo, una delle quali riguarda la durata massima dei contratti a tempo determinato che passa da 36 a 24 mesi.
Come noto, infatti, oggi i contratti a termine possono essere rinnovati per quante volte si vuole, senza tra l’altro indicare la causa della proroga, ma entro un termine di 36 mesi. Ciò significa che tra l’azienda e il dipendente il rapporto di lavoro - se regolarizzato con contratto a tempo determinato - non può durare per più di 3 anni.
Il Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, però, ha deciso di introdurre nuove regole per il contratto a tempo determinato con il Decreto Dignità, definito da Di Maio stesso come la “Waterloo del del precariato”.
Nel dettaglio, lato lavoro, Di Maio ha intenzione di superare il Jobs Act intervenendo sia sui contratti a termine - introducendo come abbiamo visto delle regole particolarmente restrittive per i rinnovi - ma anche stabilendo dei disincentivi contro i licenziamenti ingiusti. Inoltre sono previste delle sanzioni per quelle aziende che delocalizzano dopo aver ricevuto aiuti statali.
Ma torniamo alla prima novità, quella che interessa maggiormente i lavoratori: il divieto di prorogare il contratto a termine per oltre i 24 mesi. Di Maio è convinto che in questo modo ci sarà una stretta al lavoro precario, a vantaggio dei lavoratori per i quali potrebbe essere più semplice ottenere un contratto a tempo indeterminato.
Ma sarà veramente così? Leggendo il testo del Decreto Dignità e confrontandolo con la situazione reale qualche dubbio in merito c’è; come vedremo di seguito, infatti, c’è il rischio che le nuove regole sul contratto di lavoro a tempo determinato comportino uno svantaggio per il dipendente.
Lavoro a tempo determinato: cosa prevede il Decreto Dignità
Al decreto legislativo n°81 del 15 giugno 2015 sul contratto a tempo determinato, vengono apportate diverse modifiche. Nel dettaglio, viene rivisto l’articolo 19 del decreto, il quale recita:
“Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a trentasei mesi.”
Questo termine, come annunciato da Di Maio (ma che al momento non trova riscontri nel testo della bozza del decreto) passerà da 36 a 24 mesi; inoltre in coda all’articolo sarà aggiunta la definizione “ovvero non superiore a 12 mesi in mancanza delle esigenze di cui all’articolo 21, comma 1-bis”.
Cosa si intende per “esigenze”? Il Decreto Dignità reintroduce le clausole per il rinnovo, se superiore ai 12 mesi, del contratto a tempo determinato, stabilendo che questo deve essere motivato da esigenze:
- temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, o per esigenze sostitutive;
- connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria;
- relative alle attività stagionali di cui all’articolo 21, comma 2, e a picchi di attività.
Riassumendo, un contratto a termine con scadenza ogni 5 mesi può essere rinnovato la prima volta senza dover presentare alcuna giustificazione; dal terzo rinnovo in poi, invece, l’azienda dovrà spiegare qual è l’esigenza alla base di questa decisione. Naturalmente il tutto senza superare il limite di 24 mesi, oltre il quale il contratto a tempo determinato non potrà mai essere rinnovato.
Inoltre non si esclude la possibilità che l’inserimento delle clausole possa essere esteso anche ai rinnovi inferiori ai 12 mesi.
Secondo quanto annunciato dal Ministro del Lavoro, nonché leader del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, in questo modo si metterà un freno alla pratica del rinnovo prolungato dei contratti a termine, incentivando così la stipula dei contratti a tempo indeterminato.
Questa riforma, però, potrebbe non avere gli effetti sperati; vediamo perché.
Il Decreto Dignità svantaggia i lavoratori?
Quando Di Maio parla di rinnovo prolungato - e tante volte ingiustificato - dei contratti a termine ha ragione; ci sono molte aziende, infatti, che invece di far sottoscrivere un contratto a tempo indeterminato decidono di rinnovare fino a quando possibile il contratto a termine.
Il problema è che nella maggior parte dei casi scaduti i 36 mesi non viene offerto alcun contratto stabile di lavoro, poiché al dipendente viene dato il benservito e l’azienda si mette alla ricerca di nuovo personale con il quale ricominciare la pratica.
Per questo motivo non basta quanto stabilito dal Decreto Dignità per contrastare il precariato; anzi, visto quanto detto in precedenza le nuove regole potrebbero persino svantaggiare i lavoratori poiché mentre oggi questi hanno almeno la sicurezza di essere impiegati per 3 anni prima di dover cercare un nuovo lavoro (nel mentre però percepiscono quasi un anno e mezzo di Naspi), dopo l’introduzione del Decreto Dignità rischiano di perdere il lavoro dopo appena 2 anni.
Inoltre, vista la reintroduzione delle clausole per il rinnovo c’è la possibilità concreta che molte aziende decidano di non rinnovare il contratto dopo 12 mesi così da non dover giustificare la loro decisione (che tra l’altro potrebbe essere respinta).
Con questo naturalmente non vogliamo legittimare il comportamento di quelle aziende che abusano dei contratto a tempo determinato per non avere dei rapporti definitivi con i propri dipendenti; tuttavia si tratta della realtà dei fatti ed è su questa che bisogna fare i conti.
Per questo motivo il Decreto Dignità appare inadeguato per risolvere il problema alla base, poiché c’è il rischio concreto che possa verificarsi l’effetto opposto.
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