Il lavoratore che a causa di un evento morboso non può svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ha diritto all’indennità di malattia. Ma c’è un limite di assenze che non va superato se non si vuole rischiare il licenziamento.
Malattia: per quanti giorni l’anno il dipendente può assentarsi dal lavoro?
L’indennità di malattia viene riconosciuta al lavoratore ogni volta che si verifica un evento morboso che impedisce a questo di svolgere le mansioni per le quali è stato assunto, purché confermato dal certificato del medico.
A differenza delle ferie e dei permessi che vengono maturati dal lavoratore nel corso dell’anno, per le assenze per malattia limiti e durata sono stabiliti dall’INPS e dal CCNL di riferimento.
Naturalmente la durata varia a seconda dei casi: questa infatti decorre dal quarto giorno di assenza dal lavoro e cessa una volta che il dipendente si ristabilisce completamente. La scadenza della prognosi è indicata nel certificato, ma il medico inviato dall’INPS per la visita fiscale può ridurlo qualora si renda conto che il lavoratore è guarito prima del tempo.
Come anticipato però c’è un limite massimo di assenze per malattia che il lavoratore può fare durante l’anno, dopodiché il datore di lavoro può procedere con il licenziamento. Tecnicamente si definisce periodo di comporto ed è di questo che vogliamo parlarvi nel proseguo dell’articolo.
Limite annuo dei giorni di malattia
Per conoscere il limite di assenze per malattia da non superare per essere certi di mantenere il proprio posto di lavoro, bisogna fare riferimento al Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro della propria categoria.
Questo limite infatti varia a seconda della tipologia di impiego ed è indicato nei vari CCNL. Ad esempio, per gli impiegati il periodo di comporto varia in base all’anzianità di servizio, poiché per chi è stato assunto da meno di 10 anni è di 3 mesi, mentre chi vanta un’anzianità di servizio maggiore è di 6 mesi.
Questo limite a seconda del CCNL di riferimento può essere calcolato tenendo conto di tutte le assenze per malattia verificatesi durante l’anno, oppure a “secco” ossia quando viene considerata in maniera continuativa.
Limite che se superato può portare al licenziamento del dipendente, ma non solo. Solitamente, infatti, il periodo di comporto coincide con il periodo massimo indennizzabile; superato un determinato limite di assenze, quindi, il lavoratore non ha più diritto all’indennità riconosciuta dall’INPS.
Quando la malattia non viene più pagata dall’INPS?
Nel periodo di malattia al lavoratore viene corrisposta un’indennità economica dall’INPS, calcolata moltiplicando la retribuzione media giornaliera per la percentuale corrisposta dall’INPS e per il numero di giorni di assenza.
In generale, per i lavoratori dipendenti l’indennità è pari al 50% della retribuzione media giornaliera per i primi 20 giorni di malattia, mentre successivamente è del 66,6%.
L’INPS comincia a pagare l’indennità di malattia a partire dal 4° giorno di assenza dal lavoro (se previsto dal CCNL i primi tre giorni vengono pagati totalmente dal datore di lavoro) e fino alla scadenza della prognosi.
Inoltre, l’indennità dell’INPS è dovuta entro il limite di 180 giorni di assenza nell’anno solare per gli assunti con contratto a tempo indeterminato e determinato. Per quest’ultimi però il trattamento viene corrisposto per un periodo non superiore a quello di impiego nei 12 mesi precendenti alla malattia.
Questo significa che se un dipendente ha lavorato per soli 45 giorni non potrà prendere più di 45 giorni di malattia. Per chi ha lavorato per meno di un mese, però, il limite di giorni indennizzabili è comunque pari a 30.
Prima di concludere ricordiamo che nel computo dei giorni massimi indennizzabili dall’INPS non rientrano né i periodi in cui la lavoratrice usufruisce del congedo di maternità né i giorni di assenza dal lavoro connessi allo stato di gravidanza. Non rientrano nel computo neppure i giorni di assenza causati da un infortunio sul lavoro o dal sopraggiungere di una malattia professionale.
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