Il revenge porn è la forma digitale della violenza: chi lo subisce ha diritto alla cancellazione dei contenuti e può denunciare l’autore.
Il revenge porn è passato dall’essere un termine quasi sconosciuto a una delle forme più devastanti di violenza digitale. Non si tratta solo della condivisione illecita di immagini intime: è una vera e propria aggressione alla privacy, alla libertà sessuale e alla dignità personale.
I dati parlano chiaro: secondo una ricerca della Società Nielsen condotta su giovani tra i 18 e i 27 anni in Lombardia, il 4% degli intervistati ha dichiarato di essere stato vittima di diffusione non consensuale di contenuti intimi, mentre il 23% ammette di inviarli regolarmente tramite smartphone o social.
Tra le storie più drammatiche vi è quella di Michela Deriu, giovane barista sarda di appena 22 anni, finita nel mirino di minacce, ricatti e vergogna dopo la diffusione non autorizzata di suoi video privati. In un estremo tentativo di arginare il danno, Michela sottrasse denaro dal luogo di lavoro per rispondere alle richieste estorsive. Ma il peso dell’umiliazione fu insostenibile: nel novembre 2017, si tolse la vita, lasciando dietro di sé un’eco di indignazione e dolore. La sua vicenda – simbolo di un fenomeno ancora troppo sottovalutato – mette a nudo la violenza strutturale del cosiddetto revenge porn, un reato che si insinua nelle relazioni affettive, tradisce la fiducia, cancella l’identità e priva le vittime della possibilità di autodeterminarsi.
Cos’è il revenge porn: significato e definizione
Il termine revenge porn – tradotto: “vendetta pornografica” – viene usato per indicare un fenomeno sempre più frequente, ovvero, la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Ma al di là della terminologia giornalistica, il revenge porn ha una precisa qualificazione giuridica: è un reato autonomo, previsto dall’art. 612 ter c.p., introdotto dalla l. n. 69 del 2019, nota come Codice Rosso.
«La norma punisce chiunque diffonde, consegna, cede, pubblica o rende altrimenti accessibili contenuti sessualmente espliciti, originariamente destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone ritratte.»
Pertanto, si parla di revenge porn quando una persona prende immagini intime, ricevute in un momento di fiducia, e le diffonde ad altri senza alcun consenso. Violando la riservatezza della persona e la sua autodeterminazione nella sfera sessuale.
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Reato di revenge porn: cosa dice la legge
L’art. 612 ter, rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” configura i tre elementi essenziali del reato di revenge porn:
- il contenuto: che deve essere sessualmente esplicito (non bastano foto allusive o sensuali);
- il materiale: che deve essere stato acquisito o condiviso con il consenso della persona ritratta;
- la diffusione: che deve avvenire senza il suo consenso, anche se in un momento successivo alla relazione. Il mezzo utilizzato non ha rilevanza: che la pubblicazione avvenga su un social, via messaggi privati o su una piattaforma anonima, la responsabilità penale è la stessa. Il reato si configura anche se la diffusione è limitata a una sola persona o a un gruppo ristretto, purché si tratti di divulgazione non autorizzata.
Cosa prevede il reato di Revenge porn: pene e conseguenze
La pena prevista per il reato di revenge porn è severa già nella sua forma base:
- reclusione da 1 a 6 anni;
- multa da 5.000 a 15.000 euro.
Tuttavia, la legge prevede specifiche circostanze aggravanti, ad esempio:
- se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla vittima;
- se il fatto è commesso mediante strumenti informatici o telematici;
- se la condotta è posta in essere da più persone, ad esempio attraverso una catena di condivisioni organizzata.
La presenza di una o più aggravanti può portare a un inasprimento della pena detentiva e della sanzione pecuniaria, aumentando la portata repressiva della norma. Inoltre, in presenza di aggravanti, la legge prevede la procedibilità d’ufficio: ciò significa che, per far partire l’azione penale, non è necessaria la querela da parte della persona offesa.
Differenza tra revenge porn e condivisione non consensuale di materiale intimo
La distinzione tra il revenge porn e altre ipotesi di diffusione non consensuale di contenuti è sottile, ma rilevante, perché incide sulla procedibilità, sulla strategia difensiva e sulla possibilità di ottenere misure cautelari.
Il reato di revenge porn si configura solo quando il materiale è stato acquisito o condiviso inizialmente con il consenso della persona ritratta. Ad esempio all’interno di una relazione affettiva o in un contesto di fiducia. In altre parole, è un reato che presuppone un consenso iniziale all’acquisizione o alla produzione del materiale, ma non alla sua diffusione.
Pertanto, non rientrano in questa fattispecie i casi in cui il contenuto è stato ottenuto in maniera occulta o mai autorizzata dalla persona rappresentata, come nei casi di:
- Interferenze illecite nella vita privata, mediante telecamere nascoste o strumenti di registrazione installati in ambienti privati art. 615 bis c.p.;
- Accesso abusivo a sistema informatico o telematico come smartphone, cloud o account social, per sottrarre immagini o video archiviati in modo riservato art. 615 ter c.p.;
- Trattamento illecito di dati personali art. 167 D.lgs. n. 196/2003 in combinato con il GDPR.
Questi reati si differenziano dal revenge porn sia per l’origine del materiale (ottenuto senza consenso), ma anche per la diversa offesa giuridica: infatti, non si tratta della violazione della fiducia in una relazione, ma della lesione del diritto alla riservatezza, alla sicurezza dei dati e alla protezione dei dispositivi personali.
Inoltre, per questi reati non è necessario che il contenuto abbia natura esplicitamente sessuale. Se le immagini riguardano comunque aspetti privati o compromettenti della persona, si potrà configurare una lesione del diritto alla privacy, perseguibile in sede civile, o una violazione della normativa sul trattamento dei dati, anche senza arrivare all’ambito penale.
Revenge Porn: ipotesi di concorso di reati
Il revenge porn può, tuttavia, intrecciarsi con altre condotte penalmente rilevanti, dando luogo a ipotesi di concorso di reati. Ciò avviene nei contesti, dove la diffusione del materiale intimo è solo uno degli strumenti usati per esercitare controllo, intimidazione o umiliazione nei confronti della vittima. In tali casi, il revenge porn diventa uno strumento all’interno di una strategia più ampia di pressione psicologica o ricatto.
Ecco alcuni casi:
- stalking art. 612 bis c.p. si verifica quando le molestie e i pedinamenti sono accompagnati dalla minaccia di pubblicare o diffondere delle immagini intime compromettenti;
- diffamazione art. 595 c.p. si configura quando la diffusione delle immagini o dei video, è finalizzata a ledere la reputazione della persona offesa;
- estorsione art. 629 c.p. nel caso in cui la persona venga costretta a compiere azioni contro la propria volontà sotto minaccia di diffusione.
Responsabilità online: chi risponde del revenge porn sul web?
Quando un contenuto a sfondo sessuale viene diffuso in rete, le responsabilità non ricadono solo su chi ha commesso il fatto originario. Secondo il D.lgs. n. 70/2003, che recepisce la direttiva europea sull’e-commerce (2000/31/CE), i fornitori di servizi online non sono responsabili per i contenuti caricati dagli utenti, a meno che:
- non abbiano effettiva conoscenza del contenuto illecito;
- non intervengano tempestivamente per rimuoverlo o disabilitarne l’accesso una volta informati.
In altre parole, le piattaforme non hanno un obbligo di controllo preventivo, ma devono agire prontamente una volta ricevuta la segnalazione. L’adozione del Regolamento (UE) 2022/2065, noto come Digital Services Act (DSA), pienamente applicabile dal 17 febbraio 2024, introduce obblighi specifici per le grandi piattaforme online (come Facebook, Instagram, TikTok, YouTube, Reddit), imponendo:
- la creazione di sistemi di segnalazione facilmente accessibili per i contenuti illeciti;
- l’obbligo di tracciabilità degli utenti che pubblicano contenuti illegali;
- la cooperazione attiva con le autorità giudiziarie e di polizia.
Forwarders: cosa rischiano?
Un aspetto ancora sottovalutato, riguarda i cosiddetti “forwarders”, ossia coloro che inoltrano, condividono o pubblicano immagini intime ricevute da terzi, senza preoccuparsi della liceità della loro origine. In altre parole, non si tratta dell’autore principale del revenge porn, ma di chi contribuisce alla sua diffusione, spesso in modo inconsapevole ma non per questo meno dannoso.
Ai sensi dell’art. 612 ter c.p., anche la diffusione successiva costituisce reato, purché l’autore sia consapevole che il contenuto è stato ottenuto o condiviso senza il consenso della persona ritratta.
In questi casi, se sussiste la prova della consapevolezza e della volontà di contribuire alla diffusione, il forwarder risponde penalmente al pari dell’autore materiale. Inoltre, la giurisprudenza si sta orientando verso un’interpretazione più rigorosa, basata sul principio che: la responsabilità nella diffusione non si esaurisce con l’autore originario. Pertanto a nulla vale il “non sapevo”, poiché, l’elemento soggettivo del dolo può derivare anche dalla rappresentazione implicita del fatto illecito, cioè dal semplice fatto di rendersi conto che il contenuto è privato e non dovrebbe essere inoltrato.
Vittime di revenge porn: come reagire legalmente?
La prima cosa da fare è non cancellare le prove. Anche se l’istinto spinge a voler eliminare tutto, è essenziale raccogliere e conservare ogni elemento utile: screenshot, link, chat, nomi degli utenti, piattaforme coinvolte. Questi elementi saranno fondamentali per presentare una denuncia efficace.
La vittima oltre alla possibilità di presentare querela presso qualunque ufficio delle forze dell’ordine o direttamente alla Procura, può fare ricorso al modulo di segnalazione rapida messo a disposizione da alcune piattaforme digitali (Meta, TikTok, Twitter/X), che consente di avviare la procedura di rimozione dei contenuti intimi non consensuali.
La procedura è semplice: basta fare una segnalazione tramite il servizio StopNCII.org, creato in collaborazione con Meta. Il sistema genera un codice digitale unico (hash), che impedisce a Facebook e Instagram di caricare o ricondividere il contenuto. Il tutto avviene in modo anonimo e sicuro, senza salvare copie del materiale.
Processo e prove nel reato di Revenge Porn: aspetti critici
Se è vero che la diffusione non consensuale di materiale intimo costituisce di per sé un reato, è altrettanto vero che dimostrare la responsabilità penale dell’autore può essere complesso. Gli strumenti più efficaci in sede probatoria sono quelli della digital forensics, ossia l’informatica forense applicata alla raccolta di prove elettroniche. In concreto, è possibile:
- acquisire screenshot autenticati dei contenuti diffusi (con data e ora);
- eseguire salvataggi certificati delle chat o dei post online (ad esempio tramite notai, avvocati o tecnici esperti);
- recuperare metadati da file, dispositivi o piattaforme (in grado di indicare l’autore, la data di creazione, l’IP utilizzato);
- richiedere alle piattaforme social i log di accesso e i dati dell’account dell’autore della pubblicazione.
Il caso di Tiziana Cantone
Uno dei casi più dolorosi è stato quello di Tiziana Cantone, una giovane donna che nel 2016 si è tolta la vita dopo che alcuni video intimi che la ritraevano erano stati diffusi senza il suo consenso.
Tiziana, dopo la diffusione virale del materiale, aveva intrapreso una lunga battaglia legale per ottenere la rimozione dei contenuti da internet, chiedendo l’intervento della magistratura e il riconoscimento del danno subito. Il percorso giudiziario, però, è stato segnato da ostacoli di natura tecnica e giuridica: la difficoltà nel rintracciare gli autori della diffusione, la rapida replicazione del contenuto su decine di piattaforme, e soprattutto l’impossibilità pratica di eliminarne ogni traccia dalla rete.
Il suo caso ha mostrato in modo drammatico come la prova digitale, se non gestita con strumenti adeguati, possa trasformarsi in un’arma contro la vittima, invece che in uno strumento di tutela.
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