Atti impositivi atipici e carattere facoltativo del ricorso: rapporto con il giudizio contro l’atto impositivo tipico ed effetti sul consolidamento della pretesa fiscale.
Articolo a cura dell’Avv. Giampaolo Campoli
Quali siano gli atti impugnabili di fronte alle Commissioni tributarie costituisce un argomento sul quale, ormai da anni, la Cassazione è costretta a tornare con una certa regolarità.
La norma alla quale si deve fare riferimento sul punto è l’art. 19, dlgs n. 546/1992 che contiene un elenco di atti contro i quali è ammesso il ricorso da parte del contribuente dinnanzi agli organi della giustizia tributaria.
Dopo molte pronunce e un articolato dibattito in seno alla dottrina, si è giunti alla ormai consolidata conclusione che l’elenco contenuto nel suddetto articolo 19 non sia tassativo. Ma, al netto di ciò, è consentito l’esercizio del diritto di difesa da parte del contribuente contro molti più atti di quelli che il legislatore si è preoccupato di citare espressamente nelle norme sul processo tributario. In tal modo, i confini della giurisdizione delle commissioni tributarie sono andati via via espandendosi.
Tutto questo ha generato la necessità di individuare quali fossero gli elementi identificativi di un atto che potesse considerarsi impositivo e quindi astrattamente impugnabile di fronte al giudice tributario.
Quando un atto può considerarsi impugnabile?
In particolare, un atto può considerarsi astrattamente impugnabile qualora contenga una pretesa tributaria ben determinata, sia per quanto riguarda l’ammontare, sia per quanto attiene alle ragioni giuridiche di tale pretesa.
Questi sono quegli elementi minimi che fanno sì che un atto simile possa incidere sulla sfera soggettiva del contribuente e quindi generi quell’interesse ad agire di cui si diceva più sopra.
Da queste caratteristiche discende l’interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 cpc, in base al quale il contribuente può, se lo ritiene opportuno, presentare ricorso.
Il fatto che un atto “atipico” (rispetto all’elenco dell’articolo 19, dlgs n. 546/1992) venga considerato un vero e proprio atto impositivo e quindi sia ricorribile, implica, come corollario, che simili provvedimenti rispettino anche altri requisiti di legge. Ci si riferisce, nello specifico, alla motivazione la cui presenza e congruità gravano, come è noto, tanto sugli atti amministrativi intesi in senso lato (secondo le norme della legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo) quanto sugli atti impositivi (secondo le norme del c.d. Statuto dei diritti del contribuente).
Cosa dice la Corte Suprema sull’impugnazione degli atti atipici
L’insegnamento della Suprema Corte, però, va oltre queste considerazioni alquanto consolidate. Infatti, l’ordinanza in commento evidenzia anche il carattere facoltativo dell’impugnazione degli atti atipici, ricordando che la pretesa impositiva vera e propria trova la sua sede in quello che sarà il vero avviso di accertamento (o di liquidazione, a seconda dei casi).
Ora, l’impugnazione dell’atto prodromico atipico (nel caso di specie, la fattura per la Tia) assume carattere pregiudiziale rispetto al contenzioso sorto con il ricorso avverso il vero avviso di accertamento (o meglio, l’ingiunzione di pagamento per la Tia). Questo rapporto tra i due giudizi determina delle conseguenze assai rilevanti che i giudici della Cassazione non hanno omesso di evidenziare: con l’impugnazione del vero atto impositivo, viene meno l’interesse del contribuente a coltivare il primo contenzioso incardinato ed è quindi corretto che il collegio investito di tale controversia dichiari cessata la materia del contendere.
Il Supremo Collegio è giunto a queste conclusioni richiamando quella recente dottrina che ha elaborato la distinzione tra gli “atti facoltativamente impugnabili” e gli “atti necessariamente impugnabili”. Secondo questa elaborazione dottrinaria:
- i primi atti citati contengono una pretesa impositiva determinata in maniera irreversibile pur non rivestendo la forma di alcuno degli atti tipici elencati dal già citato articolo 19 delle norme sul processo tributario;
- i secondi atti citati sono «riconducibili o assimilabili (in via di interpretazione estensiva, per affinità di portata e di funzione) all’elenco degli atti tipizzati dal dlgs 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1; per cui si può dire che la pretesa impositiva è sostanzialmente e formalmente determinata».
A valle di quanto è stato sin qui esposto, preme porre l’accento su un aspetto fondamentale per la tutela delle ragioni del contribuente: se il ricorso avverso un atto atipico è meramente facoltativo, l’impugnazione dell’atto tipico è invece un onere. Questo sta a significare che, fatta o meno la scelta di presentare ricorso avverso l’atto prodromico atipico, si deve impugnare, per forza di cose, l’atto impositivo tipico. Infatti, questo secondo atto è fondamentale ai fini del procedimento accertativo da parte dell’ente impositore.
Qualora il contribuente contesti l’atto prodromico atipico ma ometta, poi, di presentare il ricorso contro l’atto impositivo tipico (cioè quello necessariamente impugnabile), determinerà il consolidamento della pretesa impositiva azionata dall’Amministrazione finanziaria.
Questo dipende dal fatto che l’atto prodromico “atipico” rimane un atto, la cui adozione o meno, non incide sulla regolarità dell’iter procedimentale che conduce all’accertamento del tributo. In questo senso, deve considerarsi superfluo (in ambito procedimentale) e facoltativamente impugnabile (dal punto di vista processuale).
L’impugnazione della fattura: quando può avvenire
Il caso concreto in merito al quale la Cassazione, con l’ordinanza n. 11481 dello scorso 8 aprile, è giunta alle conclusioni sin qui riferite, riguardava la Tia (Tassa di Igiene Ambientale) e derivava dalla riunione di due distinti giudizi, aventi a oggetto, rispettivamente, l’impugnazione della fattura per la riscossione di questo tributo e quella dell’ingiunzione di pagamento, solitamente considerata l’unico atto propriamente impositivo in questo ambito e quindi idoneo a essere oggetto di ricorso.
Dando applicazione agli orientamenti in questione, la Suprema Corte ha correttamente considerato impugnabile anche la fattura emessa per la riscossione della Tia, riconoscendo in questa tipologia di atti i presupposti da cui potesse discendere l’interesse ad agire del contribuente che ne sia destinatario.
Allo stesso modo, però, il Supremo Collegio ha ribadito il carattere facoltativo di tale impugnazione, nella misura in cui il contribuente, impugnando il successivo atto impositivo tipico, può impedire il cristallizzarsi di una pretesa fiscale che risulti, in tutto o in parte, illegittima o infondata.
È corretto quindi affermare che la giurisdizione tributaria, nonostante l’elenco tassativo di atti impugnabili previsto dalle norme processual-tributarie, deve considerarsi dotata di confini molto elastici e soggetti a continue espansioni, soprattutto grazie al lavoro della giurisprudenza.
Ne consegue che i margini per l’esercizio del diritto di difesa da parte del contribuente sono piuttosto ampi, ma non possono essere sfruttati senza avere la piena consapevolezza della natura intrinseca dell’atto contro il quale si ricorre, dove si collochi all’interno del procedimento che conduce all’accertamento e alla riscossione di un tributo e di quali siano le conseguenze a livello sostanziale (cioè relative al tributo effettivamente dovuto) delle scelte fatte in ambito processuale.
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