Se parli male del tuo datore di lavoro rischi il licenziamento e in alcuni casi potresti anche essere denunciato. Ecco a cosa fare attenzione.
Lavorare in un ambiente poco sereno è controproducente per tutti. Quando il clima è teso la giornata lavorativa sembra interminabile, i risultati calano e il benessere ne risente notevolmente. I dipendenti hanno diritto a essere trattati con rispetto ed educazione, come d’altronde anche il datore di lavoro. Per entrambe le parti ci sono opportuni rimedi legali da adottare a seconda delle circostanze, che includono le richieste di risarcimento e le denunce. Non è tutto, se parli male del datore di lavoro rischi il licenziamento.
Quest’ultimo non può essere impiegato come strumento di ritorsione personale, ma l’atteggiamento scorretto nei confronti del datore di lavoro e dell’azienda può inficiare il rapporto professionale al punto da giustificare la sanzione disciplinare più severa, integrando la giusta causa di licenziamento. Di fatto, parlare male dell’azienda per cui si lavora rischia di compromettere il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro stesso, mettendo anche a repentaglio l’immagine e gli interessi del datore di lavoro. Ci sono poi alcune fattispecie penalmente rilevanti, soprattutto riguardo al reato di diffamazione, che possono comportare conseguenze ancora più severe per il dipendente.
Ciò però non significa che i lavoratori debbano essere accomodanti e accondiscendenti, perché altrimenti sarebbero i loro diritti a essere minati. I dipendenti possono senza dubbio esternare la propria opinione sul datore di lavoro e sull’azienda anche quando non positiva, purché con toni e modi consoni alla questione e quindi senza finalità di screditare e offendere. In altre parole, non si deve superare il diritto di critica, tenuto conto anche delle circostanze e dell’emotività.
Se parli male del datore di lavoro rischi il licenziamento
Da orientamento consolidato della Corte di Cassazione possiamo affermare che parlare male del datore di lavoro in modo pubblico (o comunque rivolgendosi a più persone) attribuendogli qualità riprovevoli, utilizzando toni offensivi e riferendosi a fatti disonorevoli e non comprovati, dà atto al licenziamento.
Il datore di lavoro può legittimamente applicare delle sanzioni disciplinari per questo comportamento, compreso il licenziamento per giusta causa. Queste azioni, infatti, non solo rompono il rapporto di fiducia ma possono anche integrare il reato di diffamazione.
Si citano, in particolare, l’ordinanza del 22 dicembre 2023 e la sentenza n. 27939/2021 della Corte di Cassazione. Entrambe hanno giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che ha parlato male del datore di lavoro e dei vertici aziendali sui profili social aperti al pubblico. Ciò non sarebbe accaduto se la comunicazione fosse stata limitata e privata o se le pubblicazioni avessero avuto a oggetto fatti comprovati e toni consoni.
La gravità viene infatti valutata anche a seconda dei destinatari delle critiche, per numero e motivazione. L’ordinanza n. 33074/2024 della Cassazione ha infatti escluso il licenziamento, seppur in presenza di forti affermazioni, per l’invio di email agli iscritti a una mailing list sindacale. Anche dal punto di vista sindacale, non bisogna distogliere l’obiettivo dell’interesse collettivo, affinché la critica non sia motivata da finalità illecite.
Bisogna comunque sottolineare che l’applicabilità della sanzione disciplinare non ha nulla a che vedere con la fattispecie penale. Anche se non si configura diffamazione (o ingiuria, depenalizzata) il licenziamento è legittimo perché il dipendente non ha a cuore l’immagine aziendale e si infrange così la base del rapporto di lavoro. La sanzione è applicabile quando c’è un attacco alle qualità morali, professionali e personali, non quando si discute di un contenuto oggettivo (o provato), sebbene con toni accesi. Le dichiarazioni devono in ogni caso essere pertinenti e giustificate, per esempio a scopo di informazione o sfogo personale, senza intento di danneggiare la figura del datore di lavoro.
Quali sono i limiti?
È umano e comprensibile avere antipatie e divergenze d’opinione, ma ciò non autorizza a danneggiare gli altri. In un rapporto particolare come quello di lavoro dipendente, la necessità di tutelare entrambe le parti è molto forte, come lo sono gli interessi in gioco. Il dipendente che parla male del datore di lavoro rischia di danneggiare la sua immagine pubblica e la percezione di professionalità della clientela, con un danno economico non indifferente.
Tendenzialmente, nessuno può essere licenziato per uno sfogo privato con un confidente, magari esasperato da una giornata stanca e stressante. Allo stesso modo, chi parla con il datore di lavoro di problemi riscontrati o adisce le vie legali per difendere la propria posizione, si sta muovendo correttamente dal punto di vista giuridico. La giurisprudenza giustifica anche il lavoratore colto in un momento d’ira, magari in liti accese, come anche chi rispetta i confini del diritto di critica.
Ciò che può sembrare complicato è in realtà molto semplice: non bisogna parlare male del datore di lavoro con lo scopo di arrecargli un danno, in modo ingiustificato per modalità e contenuto della conversazione. È ciò che nel linguaggio giuridico prende il nome di continenza, rispetto a tutte le circostanze del caso, sia di forma che di sostanza. La libertà di espressione della propria opinione, tutelata in primis dagli articoli 21 e 39 della Costituzione italiana, non deve diventare il pretesto per attacchi gratuiti e nocivi.
Compromettere la reputazione e l’onore del datore di lavoro può peraltro integrare il reato di diffamazione, ma è in ogni caso un comportamento difficilmente compatibile con la fiducia che dovrebbe caratterizzare il rapporto professionale. Bisogna quindi distinguere tra la fattispecie penale e quella disciplinare, non essendo la prima strettamente necessaria. Come da consolidata giurisprudenza, è al riparo dai guai il dipendente che limita la narrazione a fatti veri o ritenuti tali in modo ragionevole, resi noti ad altre persone in modo privato e confidenziale oppure con finalità divulgative e utili, cioè di interesse pubblico comprovato.
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