Busta paga, con la crisi di governo saltano gli aumenti di stipendio: perché gli italiani perderanno oltre 1000 euro

Giacomo Andreoli

16/07/2022

Senza un governo sono a rischio il taglio del cuneo fiscale, l’intervento sul salario minimo e il rinnovo del bonus 200 euro: chi guadagna meno di 35mila euro l’anno ne «perderebbe» 1.200.

Busta paga, con la crisi di governo saltano gli aumenti di stipendio: perché gli italiani perderanno oltre 1000 euro

La crisi del governo Draghi non sta causando solo problemi geopolitici, con la Russia che festeggia, e preoccupazioni sulle prospettive economiche di medio periodo, tra Pnrr da portare avanti e possibile recessione. C’è qualcosa di molto più immediato e concreto che potrebbe colpire le tasche degli italiani: il mancato intervento dell’esecutivo per aumentare i salari.

La maggioranza stava ragionando nelle ultime settimane su un triplice intervento, tra taglio del cuneo fiscale, intervento sul salario minimo e rinnovo del bonus 200 euro. In campo ci sarebbero fra i 10 miliardi e i 13 miliardi di euro da mettere sul tema lavoro, tra un decreto atteso a fine luglio e la prossima legge di Bilancio in autunno. Il tutto da accompagnare con interventi per ridurre il caro-bollette, diminuire l’impatto dell’Iva sui beni di largo consumo e aumentare i fringe benefit (i benefici accessori concessi dalle imprese ai dipendenti).

Busta paga, gli interventi previsti tra luglio e dicembre

Chi guadagna meno di 35mila euro annui, secondo le ultime anticipazioni, avrebbe dovuto incassare in media circa 1200 euro in più all’anno. Si ragionava infatti di un aumento mensile tra i 100 e i 150 euro. Per arrivarci fondamentale sarebbe stato l’intervento autunnale sul cuneo fiscale, con almeno 5-6 miliardi a disposizione, secondo fonti del ministero dell’Economia. Una dote derivata dall’extragettito delle tasse (prima tra tutte l’Iva), ma che tra l’altro, poteva anche salire, visto il pressing dei sindacati e di Confindustria, che chiedono addirittura di triplicarla.

Per aumentare le retribuzioni, poi, il bonus 200 euro sarebbe potuto tornare oltre le tranche di agosto e ottobre (a seconda del tipo di lavoratore), con scatti di cifre inferiori, ma scaglionati su più mesi nel corso dell’anno. A tutto questo, inoltre, poteva sommarsi il cosiddetto meccanismo “Tec”, cioè l’adeguamento dei contratti ai salari minimi orari contenuti in quelli più rappresentativi per ogni categoria, quindi firmati dalle principali associazioni datoriali e dai più importanti sindacati nazionali.

Per le imprese che non si adeguano l’ipotesi era tagliare i contributi pubblici. Con tutti questi interventi, quindi, si sarebbe potuto raddoppiare il taglio sui contributi entrato in vigore quest’anno, magari aggiungendo l’opzione zero costo sul versamento dei contributi per chi guadagna meno di 10mila euro l’anno.

Quanti lavoratori sarebbero stati coinvolti

I primi aumenti di stipendio si sarebbero potuti vedere già a settembre, dopo l’applicazione di questo decreto luglio, ma per l’eventuale scatto da 1.200 euro l’anno sarebbe stato necessario probabilmente attendere l’inizio del 2023, dopo l’ok alla Finanziaria (con anche probabili nuovi incentivi ai contratti stabili). Da subito sarebbero stati coinvolti circa 5 milioni di lavoratori e a regime 16,5 milioni. Ovviamente, in proporzione, avrebbe guadagnato di più chi ha soglie di reddito basse, vicine ai 20mila euro, con la percentuale che scende fino ai 35mila.

Aumenti di stipendio, tempi stretti per la legge di Bilancio

Evidentemente se il governo cadesse e si andasse a nuove elezioni, senza alcun Draghi bis, ogni intervento previsto per luglio salterebbe, mentre la legge di Bilancio sarebbe appesa all’esito del voto. Solo se si formasse rapidamente un governo, entro l’inizio di novembre, si riuscirebbe a fare una Manovra, seppur in fretta e furia. Manovra che difficilmente potrebbe prevedere un corposo intervento sui salari.

C’è poi la questione dei rinnovi contrattuali, con il governo che stava pensando di introdurre sanzioni per chi non vuole applicarli, oltre che prevedere qualche tenue meccanismo di adeguamento degli stipendi all’inflazione (senza ricorrere alla cosiddetta «scala mobile» del dopoguerra che potrebbe causare la cosiddetta “spirale salari-prezzi”, deleteria per l’economia nazionale).

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