L’Italia e il suo no alle auto elettriche dal 2035 come vuole l’Europa è davvero giustificato? Ne parla il professore Filippi esperto di trasporti dell’Università La sapienza di Roma.
Stop alle auto com motore diesel e benzina dal 2035: l’Europa si ferma ancora e l’Italia esulta.
Ma è davvero una vittoria per il nostro Paese, e per il blocco europeo in generale, l’ennesimo tentennamento dinanzi alla rivoluzione green delle automobili elettriche?
La cronaca racconta che il voto sul divieto di vendita di veicoli nuovi a benzina o diesel dal 2035 è stato rimandato oggi, 3 marzo, senza una data sostitutiva fissata e è quindi slittato ancora, non entrando nell’agenda dei lavori della riunione dei rappresentanti permanenti aggiunti dei 27.
Sullo sfondo c’è la nostra nazione che ha dichiarato con fermezza la sua contrarietà alla misura poiché non equa e realizzabile nei tempi fissati (oltre 10 anni). Ci sono anche Polonia e Bulgaria non convinte, con la secondo che si era astenuta. E poi c’è l’incertezza della Germania, rappresentata però solo dai liberali che fanno parte del Governo di coalizione e che hanno chiesto di apportare modifiche e dare più importanza in una fase transitoria ai biocarburanti. Da sottolineare, però, che i verdi e l’Spd hanno espresso approvazione per il regolamento sulle auto elettriche.
Nessun dubbio, invece, da parte della Francia che ha annunciato massimo impegno per raggiungere l’obiettivo.
Cosa si cela, davvero, nella paura di un cambiamento quale quello della mobilità con mezzi elettrici, tra l’altro tra oltre 10 anni? Quali sono veramente i rischi e quali, soprattutto, i pregiudizi dinanzi a un mutamento, quello delle energie rinnovabili, già avviato in modo irreversibile?
Lo abbiamo chiesto al professore Francesco Filippi, Direttore del Centro di ricerca per il Trasporto e la Logistica (CTL), Sapienza Università di Roma.
Auto elettriche 2035: Italia dice no e rinuncia all’innovazione
“L’Italia cerca disperatamente altri 3 partner europei per bloccare l’operazione. Disperatamente, quindi significa che gli altri non hanno questo problema...Italia mostra una inerzia all’innovazione tecnologia, si culla sulla tecnologia nota... anche se non è per tutti così, ci sono aziende italiane che si sono mosse e vanno a gonfie vele nell’elettrico. Il problema, semmai, è di aziende che hanno ritardi tecnologici, che non si sono preparate e che la politica asseconda”: parole chiare e giudizio schietto quello del professore alla domanda su cosa ne pensa della posizione italiana contraria al regolamento.
L’invito è, quindi, a riflettere in modo più ampio sulla necessità di un cambiamento, per il quale siamo già in ritardo e rischiamo di centrare davvero fuori tempo massimo. Altrimenti, si rischia di arroccarsi nella difesa dello status quo, mentre la rivoluzione verde non solo è iniziata, ma proseguirà.
Proprio Il fattore tempo (troppi pochi anni da qui al 2035 per adeguarsi) è inesistente per Filippi, semmai “c’è un fattore resistenza da parte dell’Italia...è chiaro che ogni innovazione porta problemi, costi, investimenti ma bisogno affrontarli.”
I punti esaminati dal professore sono diversi e mirano a ribaltare tutte le criticità avanzate e supportate come valide ragioni per dire no all’elettrico dal 2035.
Innanzitutto occorre sottolineare che sebbene il veicolo elettrico non risolve, da solo, il problema del cambiamento climatico, esso svolge comunque un ruolo importante e dà un contributo contro l’inquinamento. Avviando, a catena, anche altri fenomeni benefici per l’ambiente come la spinta alle energie rinnovabili. Non è di poco conto che, secondo l’Ue, ci sono stati anni con 400.000 morti per effetto dell’aria inquinata nell’Unione Europea. Forse, si chiede il professore, proprio questo processo è malvisto dai nostri politici così legati agli interessi delle estrazioni e degli scambi di gas e petrolio?
Poi va spiegato il fattore “componentistica”. È vero che essa è più modesta di quella del veicolo a combustione interna, è più semplice, ma questa è l’innovazione tecnologica: “allora che facciamo, preferiamo cose più complesse perché offrono più occupazione?”, si chiede il professore. D’altronde la stessa batteria delle auto elettriche è una componente, perché non investire per produrle?
Il green, comunque, darà posti di lavoro esso stesso. Lo studio più citato sull’occupazione e la rivoluzione dell’elettrico è quello di Clepa, secondo il quale il regolamento Ue metterà a rischio 60 mila posti fino al 2040 in Italia e circa 275mila in Europa.
Ma la medaglia ha un’altra faccia. Motus-E, associazione delle imprese dell’elettrico, insieme con Cami, Centro di ricerca per l’innovazione nell’automotive guidato dall’università Ca’ Foscari di Venezia, come citato da Il Corriere, ha calcolato che nel 2030 l’occupazione può avere una spinta del 6% se si investe nella transizione e nella formazione di nuovi e necessarie figure professionali richieste.
Non solo. Il professore insiste anche sul fatto che le rinnovabili danno più libertà di movimento e investimento ai Paesi rispetto ai legami, a volte nocivi come la questione Russia ci ha insegnato, con i fornitori di combustibili fossili di oggi (il Nord Africa è davvero affidabile? Ne abbiamo parlato qui).
Un altro tema da valutare con maggiore prospettiva e razionalità è quello dei costi proibitivi del veicolo elettrico. Basta pensare “che il veicolo combustione interna ha avuto un’esperienza di oltre 100 anni per arrivare a quello che è adesso, mentre il veicolo elettrico è partito da poco e può migliorare nel tempo, sia come innovazione che come costi. Il prezzo di acquisto è maggiore, ma si risparmierà per esempio nei costi dei carburanti, che costeranno ancora meno con le energie rinnovabili.”
D’altronde è la stessa regola del mercato che riequilibrerà i prezzi. Con la produzione di massa delle auto elettriche, queste costeranno di meno, come è accaduto con i pannelli fotovoltaici che oggi costano un decimo di 20 anni fa.
E attenzione, secondo il professore Filippi, a puntare con enfasi sui cosiddetti biocarburanti, più ecologici. Essi sono “una cosa di risulta che non può sostituire il petrolio. Inoltre, i biocarburanti usati intensivamente potrebbe distruggere intere foreste. In più bruciano e inquinano.”
In sostanza, il treno della rivoluzione verde sta passando e non prenderlo sarà davvero un problema serio. Serve visione nella politica industriale, negli investimenti, nella creazione di un nuovo mondo del lavoro. E ripetersi che nel frattempo Cina e Usa sono avanti, che le materie prime che serviranno non ci sono per tutti e si trovano soprattutto in Cina(come il litio), che l’industria italiana dovrà iniziare subito a cambiare non fermerà i veicoli elettrici già su strada.
L’innovazione è qui e va cavalcata, anche dall’Italia. D’altronde, esempi virtuosi nel settore ci sono nel nostro Paese, come ripetuto spesso dal professore.
L’Italia che investe nell’elettrico già c’è
Sottolineare gli esempi di aziende che nel nostro Paese si sono già immerse nella rivoluzione verde dell’automotive è interessante per comprendere fino in fondo il discorso del professore Filippi.
Giorni fa il Corriere della Sera ne citava alcuni. Come Amx Automatrix, azienda bresciana familiare, ha cambiato produzione e ora si occupa di macchine che servono a fissare chip sui motori elettrici. I suoi clienti sono gruppi automobilistici di Germania, Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan.
L’economista Becchetti, ripreso sul Corriere, ha spiegato che esistono realtà italiane in grado di innovare nella direzione green, come “STM leader nel settore dei microprocessori a maggior risparmio di energia, la nuova fabbrica che produrrà pannelli bifacciali a Catania, la leadership nella produzione di turbine eoliche in Puglia e la prospettiva di una grande azienda di batterie per auto della Stellantis a Termoli.”
La sede di EuroGroup a Baranzate, nel milanese, si sta ampliando per fare spazio a un altro stabilimento per produrre di rotori e statori per auto elettriche, ovvero i componenti in acciaio che servono proprio per far muovere l’auto elettrica. L’ad Marco Arduini non ha dubbi: “Capisco le preoccupazioni per i posti di lavoro ma i costruttori convertono e convertiranno la produzione, non crediamo che manderanno tutti a casa. C’è una questione ambientale che non va sottovalutata e in prospettiva il costo della benzina salirà più di quello dell’energia.”
In sostanza, il messaggio è che “l’industria italiana può cavalcare l’onda dell’elettrico, la cultura c’è, ma deve fare sistema su componenti come il motore elettrico, l’ elettronica e le batterie”. Servono, però, più investimenti in ricerca e sviluppo e sull’innovazione.
C’è un’Italia che non vuole rinunciare all’elettrico e alle opportunità dei cambiamenti in corso. Forse, occorrerebbe ripartire da qui per arrivare al 2035 con target ambiziosi e in linea con il mondo.
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