Una parte dell’immenso tesoro tedesco è ancora custodita negli USA: Berlino torna a chiedersi se sia al sicuro.
La Germania possiede la seconda riserva aurea più grande al mondo. Eppure, una parte significativa di questo tesoro nazionale (ovvero il 37%, pari a circa 1.236 tonnellate, per un valore di 113 miliardi di euro) si trova a migliaia di chilometri di distanza, nei caveau della Federal Reserve statunitense a New York. Si tratta di una scelta strategica risalente alla Guerra Fredda, che oggi torna nel dibattito interno della politica tedesca, assumendo toni sempre più accesi.
Il tesoro tedesco sotto chiave a New York
Le recenti tensioni tra Berlino e Washington hanno acceso il dibattito sulla sicurezza e sull’opportunità di mantenere una quota così rilevante di riserve auree fuori dal territorio nazionale. A rilanciare il tema è stato Bild, il tabloid sensazionalista molto letto in Germania. Il giornale ha riportato le dichiarazioni del politico uscente della CDU (Christlich Demokratische Union Deutschlands, l’Unione Cristiano-Democratica di Germania) Marco Wanderwitz. Wanderwitz, intenzionato a sollecitare un’azione più decisa da parte della Bundesbank, ha dichiarato: “Naturalmente, la questione torna a presentarsi ora.”
Nel frattempo, Markus Ferber, parlamentare europeo della CSU (l’Unione Cristiano-Sociale attiva solo in Baviera e alleata storica della CDU) chiede un monitoraggio più rigoroso dell’oro tedesco all’estero. “I rappresentanti ufficiali della Bundesbank devono contare personalmente i lingotti d’oro e documentare i risultati”, ha affermato, segnalando un malcontento trasversale che supera gli schieramenti.
Tra patriottismo economico e pragmatismo
Non tutti, però, condividono l’allarmismo. Il ricercatore Björn Brey, tedesco di origine e docente alla Norwegian School of Economics, riconosce la solidità della Fed, ma suggerisce un’altra strategia: vendere gradualmente parte dell’oro, approfittando dei prezzi attualmente elevati. Ricorda l’esperienza della Norvegia, che nel 2003 dismise gran parte delle sue riserve auree, convertendole in valuta estera attraverso la Norges Bank. Una mossa ritenuta sensata, dato che l’oro rappresentava solo una minima parte delle riserve internazionali e contribuiva poco alla diversificazione del rischio.
La risposta della Bundesbank
A calmare le acque è stato il governatore della Bundesbank, Joachim Nagel: “Abbiamo un partner di fiducia nella Fed a New York per lo stoccaggio delle nostre riserve auree. Non mi tiene sveglio la notte. Ho piena fiducia nei nostri colleghi della Federal Reserve statunitense”, ha dichiarato, smorzando i timori politici. Del resto, non è la prima volta che il tema viene sollevato. Già nel 2013, sotto la spinta di movimenti populisti di destra, la Germania aveva deciso di rimpatriare l’oro che custodiva in Francia. Oggi, oltre la metà delle riserve è stoccata a Francoforte, e il ritorno in patria del metallo giallo è diventato, per alcuni, un simbolo di sovranità economica.
Che si tratti di un atto simbolico, di un’operazione di sicurezza o di uno strumento di pressione politica, la questione dell’oro tedesco conservato negli Stati Uniti racconta molto del clima politico ed economico attuale. Più che una minaccia concreta, sembra riflettere una crescente diffidenza: non tanto verso le casseforti americane, quanto verso gli equilibri globali, ad oggi in continuo tumulto.
In un contesto internazionale segnato da instabilità e riallineamenti strategici, anche la collocazione dell’oro nazionale diventa terreno di confronto politico. In definitiva, possiamo dire che il ritorno del dibattito sull’oro tedesco riflette una tensione più profonda: la progressiva erosione della fiducia in un ordine globale unipolare e la riscoperta, da parte degli Stati europei, del concetto di autonomia strategica – non solo militare, ma anche monetaria e simbolica.
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