L’illecito deontologico dell’avvocato deve essere supportato da una prova certa, altrimenti non può esserci alcuna sanzione disciplinare. La decisione del Consiglio Nazionale Forense.
Il Consiglio Nazionale Forense si è espresso in merito all’onere della prova in materia di illeciti deontologici. In particolare, il CNF ha specificato che nei procedimenti disciplinari nei confronti degli avvocati, la responsabilità deontologica, esattamente come quella di tipo penale, può essere imputata solo quando sono presenti delle prove certe dell’illecito.
Dunque gli standard probatori per la prova dell’illecito deontologico sono mutuati sugli standard determinati nei procedimenti penali.
Nel caso di specie, che andremo ad analizzare qui di seguito, il Consiglio Nazionale Forense si è pronunciato su una decisione emessa dal COA di Trieste in merito alla sanzione disciplinare comminata ad un avvocato per aver chiesto un compenso sproporzionato all’attività svolta, senza emettere regolare fattura.
Il caso
Il Consiglio Nazionale Forense (con decisione del 19 marzo 2018) ha esaminato la questione, molto delicata, dell’onere della prova in ambito di illeciti disciplinari degli avvocati. La decisione del CNF è orientata al riconoscimento degli standard probatori della responsabilità penale anche a quella deontologica, alla quale segue una sanzione disciplinare.
Ne deriva che, per provare la commissione di un illecito deontologico da parte dell’avvocato, è necessario che sia dimostrata una prova certa dell’illecito.
Nel caso in esame, il CNF è stato chiamato ad esprimersi in merito ad una decisione precedentemente emessa dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trieste, riguardo, appunto, la sanzione disciplinare comminata nei confronti di un avvocato che aveva commesso un illecito disciplinare. In particolare, l’avvocato in questione, era stato accusato di aver violato i doveri di lealtà, probità e correttezza per aver richiesto al proprio assistito un compenso eccessivo, non proporzionato alla qualità e quantità dell’attività svolta, per di più senza emettere regolare fattura.
Per le ragioni sopra elencate, il COA di Trieste aveva irrogato la sanzione disciplinare della sospensione dall’attività per 3 mesi. In sintesi, le accuse nei confronti dell’avvocato erano:
- aver chiesto un compenso manifestamente sproporzionato e quindi eccessivo;
- non aver emesso regolare fattura del compenso percepito;
- aver predisposto due originali dell’atto di revoca del proprio incarico dal contenuto difforme.
Il COA territoriale aveva ritenuto tutte e tre le accuse provate e, conseguentemente, aveva applicato la sanzione disciplinare prevista.
La posizione del Consiglio Nazionale Forense
Dopo l’accusa di illecito deontologico del COA di Trieste, l’avvocato in questione ha impugnato la decisione davanti al Consiglio Nazionale Forense, deducendo che il Consiglio dell’Ordine non avrebbe considerato l’attività svolta nella sua totalità, che non poteva essere provata la mancata emissione della fattura a causa del decesso del commercialista e che, in ogni caso, la sospensione dall’attività per 3 mesi sarebbe stata esagerata rispetto ai fatti commessi.
A questo punto, il Consiglio Nazionale Forense si è posto il problema di determinare lo standard per la prova materiale degli illeciti deontologici, e, quindi, della soglia minima prevista ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare. Dunque, il CNF ha stabilito che tale soglia deve essere una prova idonea a dimostrare in modo certo la commissione dell’illecito contestato, secondo gli standard della responsabilità penale.
Inoltre, il CNF, ha stabilito che la sproporzione dei compensi deve essere valutata in riferimento all’attività complessiva del legale, a prescindere da quanto indicato nella richiesta di compenso, cosa che, invece, il COA di Trieste non avrebbe fatto. Passando agli altri 2 capi di imputazione, il CNF ha confermato le accuse (soprattutto la predisposizione di due originali difformi), dunque il ricorso dell’avvocato può dirsi accolto solo parzialmente.
In sintesi, la decisione del Consiglio Nazionale Forense, ha sancito che la responsabilità disciplinare, come la responsabilità penale, deve avere come fondamento la prova certa dell’illecito contestato.
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