L’Italia ha perso una grande opportunità e più d’una volta: quella di diventare la nazione di riferimento per la net economy. E’ stata una pioniera in molte situazioni ma poi si è lasciata superare per poi rientrare nella corsa del continuo agone digitale.
Siamo alle soglie del 2000: il nuovo secolo porta con sé non solo il temuto millenium bag ma anche l’esplosione del settore tecnologico in Borsa sia in America che in Italia. Il 10 marzo di quell’anno il Nasdaq raggiunge oltre 5048,62 punti ossia il doppio dell’anno precedente ma poi succede qualcosa di inaspettato per tutti: “la bolla finanziaria fa bum”, con un crollo del mercato dell’80% del suo valore con una perdita di capitalizzazione di 1,7 triliardi di dollari e decine di startup e aziende che non erano riuscite a quotarsi per tempo e a perdere i finanziamenti.
Quel crollo del Nasdaq investe anche l’Italia che fino a quel momento tra momenti di gloria e di repentina arretratezza aveva provato a fare anche la sua parte nel mondo del digitale. Il tonfo della Borsa americana e la bolla delle dot-com segnerà un’altra frattura nel cammino nostrano verso una struttura solida dell’economia digitale attraverso startup e venture capital e prestando il fianco allo stuolo dei “reazionari” che in esso vedevano solo una “cosa da smanettoni” che non avrebbe mai preso piede. Che strano come la storia si ripeta e da essa non impariamo niente. Anche della televisione dissero così all’inizio per non parlare poi dei telefonini che oggi conosciamo nella versione evoluta degli smartphone. Eppure prima dell’anno 2000 tanto era stato fatto e il Belpaese aveva cominciato a dare un solido contributo. Basti pensare che negli anni ‘90 l’Italia era uno dei primi dieci mercati Internet e oggi nel ranking dedicato alla digitalizzazione è al 42° posto.
“L’Italia nella rete” di Gianluca Dettori con il contributo di Debora Ferrero, edito da Solferino, nasce dalla penna, dai ricordi e dalle azioni di uno dei protagonisti assoluti in Italia della net economy. Il libro ripercorre in tutto e per tutto, attraverso una ricostruzione lucida e appassionata, la nostra storia del digitale, arricchito dalle testimonianze dei vari attori dell’epoca che hanno contribuito non senza pochi sforzi a perorare la causa di uno dei settori più strategici per l’economia mondiale e che nell’ultimo ventennio ha dato lavoro a molte persone e, contestualmente, creando anche nuove professionalità e competenze.
Ce ne rendiamo bene conto oggi, nel 2021, quanto sia importante la tecnologia, quanto attraverso di essa anche molti lavori tradizionalmente da scrivania abbiano potuto continuare a esistere durante lo scorso anno o quanto il potersi connettere assicuri la presenza in DAD. Che poi sia efficace in un discorso di corretta scolarizzazione e socializzazione o che ci piaccia chiamare smart working il semplice telelavoro perché conferisce “standing”, è un’altra storia.
Cambiamo tutto ma non cambiamo niente
Dall’inizio delle vicende narrate a oggi, non è stato tutto rosa e fiori, lo sanno bene i due autori che non risparmiamo una visione critica e asciutta su quanto è stato fatto finora. L’Italia è stato un paese in pole position in questo agone digitale. Attraverso l’Olivetti, una delle aziende più all’avanguardia in fatto di business e di gestione delle risorse umane, abbiamo concorso da protagonisti all’invenzione del computer, dei transistor e dei microchip, ma poi qualcosa è andato storto, mandando a ramengo tutti gli sforzi fatti per emergere.
Perché? Forse per il terribile vizio italico di trasformarsi improvvisamente nei primi nemici di noi stessi e di accogliere il nuovo o manager geniali e fuori dagli schemi come una minaccia. Come se dall’alto della nostra autorevole tradizione di geni, scienziati, santi, poeti e navigatori ci potessimo arrogare il diritto di continuare a vivere di rendita per quello che è stato, dimenticando che i nostri avi a loro volta sono stati dei rivoluzionari e degli innovatori. Un fatto tra i tanti? La necessità di voler trovare a tutti i costi il modo “corretto” di misurare un mezzo, come il web e la neonata filiera dell’editoria e della pubblicità online, adeguandolo a quello in uso per altri media, come la carta, la radio e la televisione. Un esempio davvero pessimo già all’epoca di come non si siano volute comprendere le peculiarità dello strumento digitale, per inciso il più veloce, misurabile e trasparente che vi sia, per omologarlo nei contenuti e nel trattamento a quelli già esistenti o i media classici per citare una frase che andava tanto di moda qualche anno fa, con la conseguenza che invece di premiare un mercato nascente fatto anche di tanti piccoli editori, hanno vinto i più grandi.
L’industria digitale oggi in Italia vale 72 miliardi di euro ossia 3,7% del PIL nostrano con una crescita del 2% annuo (dati Assintec-Assinform) e non ne possiamo più fare a meno. Dopo gli anni di medioevo che si sono venuti a creare dalla prima era della new economy anche in Italia si è ripreso il discorso delle startup e del venture capital. Complice, questa volta, anche il governo che nel 2012 dà una definizione di legge alle startup innovative e da lì è stato un raffinare continuamente la normativa per renderla più agevole e raggiungibile. Peccato per gli anni persi, il cammino da fare è ancora lungo ma competenze e voglia di fare non mancano.
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