I fili del telefono congiungono amici e nemici dell’Afghanistan. Possiamo già tirare le prime somme sulle risposte internazionali all’attacco talebano.
L’attenzione mediatica sul caso afgano in queste ore si sta spostando dal fronte umanitario a quello geopolitico. Si disegna man mano la prima mappatura completa dei vari interessi nazionali e delle posizioni politiche connesse con spaccature non sempre nette fra chi appoggia o meno il nuovo Emirato islamico dell’Afghanistan.
Una cosa è certa: i disordini di Kabul fanno gola alle potenze che intendono affacciarsi, o riaffacciarsi, sul territorio per colmare la lacuna del predominio statunitense. Cina e Russia sono prevedibilmente in prima linea e hanno già preso contatti con i talebani. Le loro mire però vanno ben oltre la semplice estensione del proprio raggio d’influenza.
Sul fronte italiano e britannico, invece, ci sono delle resistenze ma non mancano gli spiragli di apertura al dialogo. Le condizioni imposte in alcuni casi non sembrano neanche particolarmente stringenti, ma ormai è una questione di pura diplomazia per l’Occidente. Le ultime dichiarazioni di Mario Draghi e Boris Johnson meritano un occhio di riguardo.
L’appoggio c’è: le intenzioni cinesi e russe
Gli unici due Paesi che hanno lasciato aperte le ambasciate a Kabul sono Mosca e Pechino. Una mossa eloquente, capace da sola di testimoniare l’atteggiamento delle due potenze nei confronti del governo talebano.
Il riconoscimento delle stesso è per altro già avvenuto in maniera ufficiale da parte della Cina. Le affermazioni della portavoce del ministro degli Esteri cinese Hua Chunying riguardo questa mossa, però, non convincono.
Dichiarare i talebani “più ragionevoli” di quanto non si siano mostrati agli occhi della storia tra il 1996 e il 2001 è già di fatto una posizione attaccabile, smentita per altro dalle stesse azioni delle milizie, ree di aver attaccato i primi coraggiosi manifestanti scesi nelle strade della capitale per richiamare l’attenzione internazionale sul triste destino che li attende.
La vera aspirazione del Partito, a detta degli analisti internazionali, travalica inoltre anche la semplice estensione del proprio territorio di influenza.
Gli equilibri mondiali si spostano sul fronte commerciale con una stoccata importante che il governo di Putin, ma soprattutto quello di Xi Jinping, intende sferrare agli Stati Uniti di Biden. Il controllo delle risorse minerarie del territorio afgano è il bersaglio reale di queste trattative.
Sostanziosa è infatti la percentuale di terre rare nella zona e queste porzioni di suolo ricche di minerali sono propulsori non indifferenti dal punto di vista strategico-industriale. Accumulare risorse quali il litio potrebbe rivelarsi cruciale nel futuro prossimo vista la dipendenza del settore tecnologico da questo elemento chimico.
Le parole di Draghi
Da un lato c’è chi, come l’alto rappresentante della politica estera UE Josep Borrell, dichiara che parlare con i talebani significa automaticamente riconoscerli. Dall’altro chi, come Giuseppe Conte, sostiene che il dialogo sia necessario o meglio inevitabile se davvero si vogliono preservare i diritti umani dei cittadini afgani.
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Questo non significa di certo che l’Italia di Mario Draghi intenda affidarsi alle parole delle truppe di Haibatullah Akhunzada, ma che puntare a un coordinamento fra Stati è l’unica via realisticamente percorribile.
La visione dell’attuale premier non è infatti del tutto chiara perché Draghi non si è sbilanciato come il capo del Movimento 5 Stelle durante la sua ultima uscita pubblica, ma dalle sue recenti telefonate sembra emergere una lettura plausibile delle intenzioni dell’esecutivo.
In chiamata con Biden, Draghi sembra orientato a dirimere la controversia attraverso l’accoglienza dei rifugiati ma soprattutto grazie alla diplomazia internazionale in vista del G20 presieduto proprio dall’Italia.
Rispetto all’avanzata russa sul suolo afgano invece non sembra condannare apertamente la scelta di Putin: cerca piuttosto il confronto tramite un contatto telefonico. Dalla chiamata sembra essere emersa un’intesa e la volontà di portare pace e stabilità sul territorio, ma come si possa concretamente conciliare questa posizione con le azioni già perpetrate dal Cremlino in favore dei talebani resta per ora un vero mistero.
Il voltafaccia dell’UK
Un altro dei nomi che si trovano sulla «linea di confine» è quello del premier inglese Boris Johnson, il quale è riuscito a contraddirsi svariate volte nell’arco di questi ultimi giorni.
Se da un lato, in un dibattito straordinario in corso alla Camera dei Comuni a Westminster ha detto che il governo britannico intende “giudicare i talebani in Afghanistan dalle loro azioni in materia di diritti umani”, Johnson è anche lo stesso che si dice pronto a lavorare con i talebani “se necessario”.
I termini di questa eventualità sono stati saggiamente omessi ma l’instabilità della sua posizione forse nasce dalle crescenti pressioni cinesi. La Cina si è infatti già mossa in controtendenza alle precedenti volontà del ministro britannico. Sempre lui aveva detto di non concedere il riconoscimento al nuovo governo di Kabul “prematuramente o a livello bilaterale”.
Se basta però un passo più vigoroso da parte di qualche potenza estera per ritrattare le proprie dichiarazioni, c’è qualche falla nel sistema.
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