Il debito pubblico italiano è arrivato a 2.076 miliardi, toccando quota 133,3% del Pil. Si discute di come poter ripagare questo debito, evitando di ridurre le spese e di aumentare la pressione fiscale. La vendita del patrimonio pubblico è la soluzione più accreditata. Forse, però, non è la strada giusta da seguire.
Due giorni fa l’uscita dei dati Eurostat sul debito pubblico italiano ha destato preoccupazione tra i commentatori in ambito politico e accademico. Secondo l’ufficio statistico con sede in Lussemburgo nel secondo trimestre 2013 il debito pubblico italiano è arrivato a 2.076 miliardi, oltre 40 in più rispetto al trimestre precedente (2.034.763 miliardi).
L’Italia si sta quindi avvicinando (paurosamente, a parere di molti) al debito pubblico tedesco, che in termini assoluti é ancora il più ampio d’Europa con 2.146 miliardi, ma che va rapportato ad un Pil più elevato in ammontare rispetto a quello italiano. Quel che preoccupa di più, comunque, non è la cifra in sé quanto il rapporto tra debito pubblico e Pil, che ha ormai sfondato quota 133,3%, contro il 127% dell’ultimo trimestre del 2012.
Numeri così grandi infondono paura, sopratutto in relazione alla domanda che attanaglia la mente di numerosi giornalisti, opinionisti, politici ed economisti, ossia: in che modo può essere ripagato un debito così elevato? Quali sacrifici, se ce ne sono, bisogna compiere per azzerarre o ridurre il più possibile questo peso che ci portiamo sulle spalle?
Come mai il debito italiano cresce?
Tanto per cominciare, l’intero dibattito si concentra sul rimborso del debito ed il pagamento degli interessi. In particolare, si dice, sono proprio gli interessi la principale causa dell’incremento del debito pubblico italiano. E come vengono pagati? Tramite le entrate fiscali. E’ la regola aurea della finanza pubblica; allo scopo di abbattere (o comunque stabilizzare) il livello del debito pubblico esistente, lo Stato realizza avanzi primari e con i proventi derivanti dalla tassazione effettua il pagamento degli interessi. In quest’ottica, il rimborso del debito si realizza tramite gli avanzi primari.
Come abbiamo visto nell’articolo Cos’è il debito pubblico: una panoramica per orientarsi, l’esistenza di un deficit pubblico è la causa dell’aumento del debito; essendo il deficit pubblico pari alla differenza tra interessi passivi e saldo primario, un valore degli interessi passivi superiore ad un saldo primario positivo è causa del sorgere di un deficit pubblico e dunque dell’aumento del debito pubblico.
E infatti, stando alle rilevazioni statistiche, sembra proprio che la causa dell’aumento del debito italiano negli ultimi anni stia proprio nel valore complessivo degli interessi passivi a carico dello Stato.
Nel grafico qui sopra (dati Ragioneria Generale dello Stato) possiamo osservare come la spesa complessiva dell’amministrazione pubblica al netto degli interessi (consumi e investimenti) sia gradualmente diminuita tra il 2009 e il 2012: da un valore di 727 miliardi e 600 milioni circa ai 714 miliardi e 400 milioni di euro. Le entrate complessive hanno invece manifestato una decisa impennata verso l’alto: dai 716 miliardi circa del 2009 ai 753 miliardi di euro del 2012.
Ciò ha consentito allo Stato di registrare, a partire dal 2010, avanzi primari di bilancio consistenti e in aumento: da quasi 2 miliardi di euro del 2010 a poco più di 39 miliardi del 2012.
Nel frattempo, però, il debito è aumentato, sia in termini nominali che in rapporto al Pil; in valore assoluto si osserva un passaggio dai 1.770 miliardi circa del 2009 ai quasi 2000 miliardi di euro del 2012. Come mai? Proprio per il comportamento degli interessi passivi, i quali registrano un valore costantemente superiore all’avanzo primario, come si può vedere dalla figura qui sotto (dati Ragioneria Generale dello Stato):
L’avanzo primario è cresciuto in misura maggiore rispetto all’ammontare degli interessi, il che ha permesso che il deficit pubblico complessivo si riducesse (il deficit si riduce, ma è sempre deficit, per cui il debito aumenta!), come mostrato nel grafico qui sotto (dati Eurostat):
Come ripagare il debito pubblico?
E veniamo ora alla domanda clou. Da più parti si sostiene che Lo Stato italiano dovrebbe fare come il buon padre di famiglia: quando si hanno debiti, ma anche proprietà, si possono vendere le seconde per ridurre i primi. Rimborsare il debito e pagare gli interessi tramite un ulteriore aumento dell’avanzo primario e dell’imposizione fiscale sarebbe infatti una scelta azzardata e impopolare per i dannosi effetti sull’economia. A tal riguardo, è di poche ore fa la notizia che il Tesoro italiano starebbe studiando una cessione del 4% di Eni, proprio per evitare ulteriori aumenti della pressione fiscale.
L’Italia ha un patrimonio pubblico stimato in 1815 miliardi (dati 2011: in realtà alcuni immobili, come ad esempio le palazzine ministeriali, non vengono considerati nelle valutazioni in quanto non concretamente vendibili). Bisogna vendere il patrimonio, si dice, per ridurre il debito – e, riducendo il debito, pagare meno interessi. Gli immobili della pubblica amministrazione hanno un valore di mercato di 420 miliardi, le partecipazioni di 132 miliardi. Valgono 225 miliardi gli immobili dei comuni, 29 quelli delle province, 11 quelli delle regioni e 72 miliardi gli immobili dello stato. (Dati 2011)
Non solo, il 94% del debito è dello Stato centrale, ma il 67% del patrimonio è degli enti locali. Secondo alcuni commentatori, bisognerebbe cominciare a vendere il patrimonio dello Stato centrale perché è possibile farlo in modo più semplice e lineare. 63 miliardi di questo patrimonio consistono in imprese (parte di Eni ed Enel, le Poste, l’Inail, la Consap) che possono essere velocemente vendute sul mercato. Gli introiti possono essere un primo “taglio” al debito pubblico.
Cosa c’è che non va in questo approccio?
In primo luogo questa proposta presuppone che il pagamento del debito corrisponda ad una sua estinzione o stabilizzazione. I recenti sviluppi dell’analisi economica hanno invece mostrato come non esista, in linea di principio, alcun limite all’espansione del debito pubblico. La questione del pagamento del debito può allora essere trattata senza fare alcun riferimenti ad eventuali misure di stabilizzazione o abbattimento.
Inoltre, la proposta di vendita del patrimonio pubblico (di cui una parte rappresentato da società di interesse generale) va incontro, ci sembra, ad alcune difficoltà:
- l’acquisto da parte dei privati di tutto (o parte) del patrimonio pubblico prevede una grande immissione di liquidità all’interno del sistema economico; è infatti presumibile che le somme per l’acquisto di società, immobili o partecipazioni in mano pubblica vengano richieste in prestito da parte delle eventuali imprese private acquirenti alle banche, con ciò contribuendo ad accrescere la quantità di moneta in circolazione. Verrebbe accettato questo dalla BCE una volta finite le immissioni di liquidità a buon mercato?
- la vendita ai privati di società pubbliche (di fatto ormai formalmente private in quanto società per azioni) farebbe si aumentare le entrate (entrate in conto capitale) ma non consentirebbe più di ricavare i dividendi futuri (interessi attivi) sulle quote azionarie. Ciò che è importante considerare è allora il valore di vendita delle quote azionarie confrontato con i dividendi futuri percepibili su quelle quote: se il valore è inferiore, come spesso accaduto, si ha una perdita netta per lo Stato;
- La vendita ai privati di società pubbliche eroganti servizi di pubblica utilità non ha, considerando le passate esperienze, gli effetti sperati, sopratutto sull’andamento di prezzi e tariffe. Nell’ultimo decennio abbiamo infatti assistito ad un aumento dei costi a carico della collettività sopratutto in quelle società di interesse generale passate in mani private.
Cosa proporre allora?
In un contesto completamente diverso, si potrebbe allora sostenere che, poichè non esistono limiti teorici all’espansione del debito pubblico, la liquidità derivante dall’emissione di nuovo debito può consentire di rimborsare i titoli in scadenza e pagare gli interessi passivi. Senza necessità di rispettare la regola aurea, senza aumentare le imposte per pagare l’onere del debito e senza ridurre la spesa pubblica per realizzare avanzi primari.
E’ chiaro che il discorso implica un continuo aumento del valore assoluto del debito; ma, se si considerano gli effetti espansivi sull’economia (negati e rigettati da gran parte dell’opinione pubblica e del mondo accademico, come abbiamo descritto qui), quel debito aggiuntivo che serve a finanziare la spesa in deficit crea reddito, occupazione e risparmio, e quindi domanda, almeno potenziale, di titoli pubblici.
E’ evidente che le regole europee (Maastricht in modo particolare) impediscono simili soluzioni; ancor più evidente è il fatto che per sostenere la continua domanda di titoli pubblici abbiamo bisogno di una BCE che operi da prestatore di ultima istanza. Ma una strada alternativa da percorrere c’è rispetto alle soluzioni convenzionali.
Difficile da applicare in questo momento storico, ma comunque presente.
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