Sono 112 i Paesi che si sono impegnati a scambiarsi informazioni sui movimenti finanziari dei cittadini stranieri: gli USA però non hanno aderito a questo accordo per combattere l’evasione fiscale.
L’evasione fiscale è da sempre uno dei grandi fardelli che grava sulle spalle di tutti i Paesi del mondo e, in particolare, su quelle dell’Italia visto che da noi si stima che ogni anno ci siano la bellezza di 110 miliardi di tasse non pagate.
In un periodo di crisi recuperare almeno parte di questo ingente bottino appare vitale per i vari Governi, tanto che negli ultimi anni sono stati siglati diversi accordi internazionali per unire le forze nella lotta all’evasione fiscale.
L’ultima inchiesta di Dataroom, l’approfondimento realizzato da Milena Gabanelli per conto del Corriere della Sera, ci svela però che non tutti i Paesi contribuiscono alla stessa maniera in questo scambio di informazioni.
Gli Stati Uniti infatti pretendono la massima collaborazione da parte degli altri Paesi, mentre quando si tratta di ricambiare il favore sono bene attenti a proteggere i sette paradisi fiscali attualmente operativi Oltreoceano.
Evasione fiscale: gli Usa collaborano poco
Nel 2014 sono stati 112 i Paesi, tra cui anche l’Italia e il resto dell’Unione Europea, che hanno aderito al Common Reporting Standard, un protocollo voluto dall’Ocse che promuove lo scambio di informazioni fiscali.
“Le banche, i fondi di investimento, le fiduciarie, i trust e altre finanziarie - si legge nell’inchiesta del Corriere - sono tenute a comunicare alle autorità del proprio Paese come hanno operato i cittadini stranieri: conti di deposito, conti di custodia detenuti da fiduciarie o trust; azioni e altre forme di capitale a rischio; contratti di assicurazione”.
Un ottimo strumento in mano ai vari Governi per combattere l’evasione fiscale, peccato che gli Stati Uniti hanno deciso di non aderire a questo protocollo, preferendo puntare tutto sul Foreign Account tax compliance Act (Facta) voluto proprio da Washington e che al momento interessa 113 Paesi tra cui anche l’Italia.
Si tratta però di un insieme di accordi bilaterali e, come fa notare Dataroom, nell’intesa siglata tra Italia e Stati Uniti la bilancia sembrerebbe pendere decisamente verso la parte degli americani.
Il nostro MISE così ogni anno comunica alle autorità statunitensi “il numero di conto aperto da un cittadino americano in una banca o in un’altra istituzione finanziaria, il totale dei depositi, degli interessi maturati, dei redditi provenienti da cessione di una parte o di tutto il patrimonio; se è un deposito fiduciario va comunicato l’ammontare degli interessi maturati, dei dividendi incassati e altri redditi generati dal patrimonio in custodia”.
Gli USA invece si limitano a riferirci “i dati anagrafici dei contribuenti italiani, il numero di conto aperto presso una banca americana, gli interessi maturati in un anno, il totale dei dividendi e di altri redditi provenienti da attività negli Stati Uniti, ma il totale delle ricchezze depositate su quei conti no”.
Se le nostre informazioni relative ai movimenti finanziari dei cittadini americani nel Bel Paese sono molto esaustive, quelle che fanno il percorso inverso provenienti da Oltreoceano sono invece più vaghe e poco utili alla causa.
Così facendo gli Stati Uniti andrebbero a proteggere quelli che sono i suoi sette paradisi fiscali: Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska, Montana e South Dakota. Negli ultimi anni non sarebbe così un caso che molte aziende italiane abbiano deciso di spostare la sede delle loro società in questi Stati: oltre alla bassa tassazione, ci sarebbe anche questa tutela de facto da parte di Washington.
Un comportamento questo che complica non poco le cose alla Agenzia delle Entrate, depotenziando la nostra lotta all’evasione fiscale proprio nel momento in cui l’Italia avrebbe il bisogno di recuperare una buona parte di queste tasse che vengono eluse al nostro Fisco.
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