Intervista all’ex ambasciatore italiano in Iraq Marco Carnelos: ”Colpisce la paralisi propositiva dell’Europa e del governo, nessuno tra Iran e Stati Uniti desidera una guerra”.
Venti di guerra tra Iran e Stati Uniti, con la situazione che sembrerebbe essere sul punto di degenerare dopo l’attacco da parte dei Pasdaran a due basi americane in Iraq, tra cui anche quella di Erbil dove sono presenti i nostri militari, in risposta all’uccisione del generale Qasem Soleimani.
Come se non bastasse, ad alimentare le tensioni internazionali c’è anche la situazione nella vicina Libia, dove è ormai guerra totale tra le milizie fedeli al generale Haftar e l’esercito di Tripoli.
Chi conosce molto bene le dinamiche in queste zone è Marco Carnelos, ex ambasciatore in Iraq e prima inviato speciale del governo italiano per il processo di pace in Medio Oriente e la crisi in Siria.
Dopo l’uccisione di Qasem Soleimani e l’attacco dei Pasdaran alle basi Usa in Iraq la situazione in Medio Oriente sembrerebbe essere sul punto di precipitare: c’è veramente il rischio di una guerra tra Iran e Stati Uniti?
Nessuna delle due parti desidera un conflitto ma paradossalmente entrambe stanno adottando comportamenti che potrebbero determinarlo, anche se la responsabilità maggiore per questa crisi è purtroppo americana, e non inizia certo con l’uccisione di Soleimani. Quella che abbiamo visto questa notte, purtroppo, non è la reazione iraniana al blitz della settimana scorsa ma soltanto un messaggio indirizzato agli Stati Uniti del tipo “se pensavate di intimorirci uccidendo Soleimani vi siete sbagliati” e per soddisfare parzialmente la propria opinione pubblica (la stampa di Teheran propaganda infatti 80 vittime USA). Gli iraniani avrebbero condotto l’attacco con modalità (nessuna vittima americana risulterebbe, in effetti) che sembrerebbero escludere la volontà di un’escalation. Se Teheran avesse voluto veramente causare elevate perdite statunitensi avrebbe avuto tutti i mezzi per farlo. Il rischio è che i canali informali di dialogo tra le due parti sembrano ora recisi (anche quelli che esistevano in Iraq attraverso il Primo Ministro iracheno, Al Mahdi) e potenziali malintesi reciproci potrebbero innescare involontarie e incontrollabili escalation.
Donald Trump alle prese con l’impeachment e con una lunga campagna elettorale da affrontare in vista delle elezioni di novembre, avrebbe più motivi o insidie nel dare vita a un conflitto in Medio Oriente?
Nell’immediato le tensioni in Medio Oriente stanno avendo – almeno dal punto di vista personale di Trump – la funzione di distogliere l’attenzione mediatica dalla vicenda dell’impeachment e di incrementare il suo piglio decisionista presso la sua base elettorale (chi lo critica per l’uccisione di Soleimani non lo avrebbe votato comunque). Resta da vedere se a medio-lungo termine questo risvolto sarà positivo per l’interesse generale dell’America. Se questa situazione di conflittualità latente dovesse trascinarsi per i prossimi mesi con inevitabili riflessi negativi sui prezzi del petrolio, gli umori degli investitori e, in ultima analisi, sull’andamento dell’economia ecco che il prezzo da pagare per il Presidente e per il popolo americano potrebbe essere alto. Se poi la situazione dovesse sfociare in un conflitto aperto, gli esiti sarebbero davvero imprevedibili, specialmente sulla vasta massa di indecisi che generalmente determinano l’esito delle elezioni USA nelle settimane che precedono il voto.
Lei è stato ambasciatore dell’Italia in Iraq, le nostre truppe di stanza a Erbil possono essere considerate a rischio?
Le nostre truppe non sono stanziate soltanto ad Erbil, ma anche a Baghdad e Kirkuk. In tutte queste aree i rischi ci sono sempre stati, ma ora possono aumentare, come testimoniato dagli attacchi missilistici iraniani di questa notte. Il Governo e Parlamento iracheni hanno decretato il ritiro di tutte le forze militari straniere, se USA e Italia (come sembra) e altri Paesi della Coalizione anti-ISIS dovessero ignorare tale richiesta, i rischi crescerebbero. Le nostre forze si ritroverebbero in un ambiente ostile e alla ricerca di una vendetta. Peraltro, spostare eventualmente tutto il nostro contingente ad Erbil, nel Kurdistan iracheno, potrebbe essere insufficiente. Si tratterebbe di un ulteriore affronto alla sovranità dell’Iraq e, se è vero che i lanci di missili iraniani di questa notte hanno interessato anche Erbil, ecco che sotto il profilo della sicurezza cambierebbe poco. In sintesi, se la Coalizione anti-ISIS pensa di ottemperare alla richiesta di ritiro dall’Iraq ripiegando in Kurdistan potrebbe fare un grossolano errore di calcolo. I nostri Ministri degli Esteri e della Difesa dovrebbero recarsi immediatamente e congiuntamente a Baghdad e chiedere inequivocabilmente alle Autorità irachene se il nostro contingente debba effettivamente ritirarsi dal Paese.
L’Europa e il nostro governo come si stanno muovendo durante questa crisi?
Quello che mi colpisce e la paralisi propositiva dell’Europa, e di riflesso del nostro Paese. Fatti salvi i soliti scontati appelli di rito al dialogo a alla necessità di stemperare le tensioni siamo davanti ad un drammatico vuoto pneumatico. Nessuna proposta salvo le solite gesticolazioni francesi. Nessuno pretende che l’UE e i suoi principali Paesi membri prendano posizioni filoiraniane, ci mancherebbe, ma nemmeno che essi possano appiattirsi in modo cosi plateale davanti alle posizioni statunitensi che ci hanno schiaffeggiato ripetutamente con i dazi; basta guardare le dichiarazioni congiunte che Macron, Johnson e la Merkel hanno rilasciato negli ultimi mesi. Il meccanismo europeo INSTEX che doveva ovviare alle sanzioni USA e mantenere l’Iran agganciato all’Accordo nucleare non è mai decollato e quindi l’Iran si sta distanziando dal JCPOA, peraltro secondo i termini previsti dalle stesse clausole e, quindi, facilmente reversibili. Il paradosso è che la posizione europea per questa Amministrazione americana non sarà mai sufficientemente leale e per l’Iran mai sufficientemente solidale. Siamo riusciti a deludere entrambi. Nel 2003 sull’Iraq ci siamo spaccati. Con l’Iran invece ci stiamo auto-emarginando. Insomma cornuti e mazziati.
Anche in Libia la situazione è sempre più complessa, con la guerra civile che ormai sta interessando tutto il Paese.
La partita libica è ormai passata in mano a Russia e Turchia con Egitto ed Emirati Arabi sullo sfondo. Il Ministro Di Maio ha fatto bene ad andare ad Ankara ma temo che ormai sia tardi. L’Europa, e l’Italia, sono stati soppiantati, e gli Stati Uniti sembrano più impegnati altrove. Su questo dossier, considerata la posta in gioco, il nostro Paese ha recentemente compiuto un gravissimo errore di omissione: quando Haftar ha rotto gli equilibri iniziando l’offensiva militare, il Governo avrebbe dovuto avere il coraggio bombardare le sue formazioni militari stabilendo una forma di deterrenza e fermando molto prima la loro avanzata. Molti avrebbero protestato, ci sarebbero state le solite polemiche, avremmo corso dei rischi, ma poi il rispetto verso l’Italia sarebbe cresciuto da parte di tutti e, con esso, il nostro ruolo nella crisi e nel propiziarne una possibile intesa. Soltanto rischiando si ottiene qualcosa. Oggi invece siamo solo degli spettatori.
Iran e Libia sono due paesi con i quali l’Italia ha sempre avuto rapporti commerciali privilegiati: c’è il rischio adesso per le nostre aziende interessate di vedere interrotti questi canali?
Se la situazione dovesse precipitare tutti ne risentirebbero ulteriormente. Ma sgombriamo il campo da grossolani equivoci. I rapporti commerciali privilegiati dell’Italia con la Libia e l’Iran non esistono più da tempo. Quelli con Tripoli sono stati affondati dai nostri partners e alleati inglesi, francesi e americani con l’intervento del 2011. Dinanzi a quella scelta, rivelatasi sciagurata, l’Italia ha fatto un calcolo sbagliato sostenendola (mi riferisco al Presidente Napolitano e agli allora Ministri Frattini e La Russa) o peccato di omissione nel non avere il coraggio di opporvisi (Presidente Berlusconi). Quanto a quelli con Teheran, sono stati distrutti dalle sanzioni americane che hanno fatto crollare il nostro interscambio commerciale con quel Paese danneggiando nuovamente le nostre imprese. Anche in questo caso, lo zelo italiano nell’adeguarsi a tali misure ha rivelato una propensione all’autolesionismo che lascia stupiti. Su entrambi i dossier per soddisfare gli interessi dei nostri partner e alleati abbiamo danneggiato gravemente i nostri.
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