Per il segretario PD, i prezzi resteranno alti a lungo ma non a causa della resistenza ucraina che armiamo, bensì del Cremlino. Una falsità per nascondere lo scontro Orlando-Confindustria sui salari.
L’inflazione ci accompagnerà nei prossimi mesi, noi vorremo che così non fosse ma dobbiamo esse consapevoli che rischiamo una situazione per colpa della guerra di Putin, non della resistenza ucraina. Voglio respingere un messaggio, la colpa non è della resistenza all’invasione. La colpa è di chi ha invaso. Così, intervenendo in una trasmissione Rai e interrogato sul nodo spinoso delle retribuzioni, il segretario del PD ha cercato di mettere le mani avanti. Era dal 2016 e dal Russiagate che un politico non adoperava in maniera cos’ disperata la strategia del blame on Putin: all’epoca fu Hillary Clinton nel tentativo di giustificare la sconfitta contro Donald Trump.
Balle. Ovviamente. E per confermarlo non servono esperti, analisti, economisti di chiara fama e con curriculum degni dell’Enciclopedia britannica. Basta questo semplice grafico,
basato su dati macro ufficiali statunitensi - BLS, Treasury e Fed - relativi al trend dei prezzi, poi rielaborati da Bloomberg. Signore e signori, ecco in tutta la sua esiguità il peso specifico dell’invasione russa in Ucraina sul dato inflazionistico statunitense. Si potrebbe chiudere qui l’articolo. Perché non solo Enrico Letta si trova costretto a inventare alibi per giustificare una presidenza Biden - salutata come il sol dell’Avvenire - che quell’inflazione l’ha lasciata esplodere in tandem con una Fed che ha parlato fino all’altro giorno di transitorietà. Ma ammettere come stanno le cose comporterebbe anche scoperchiare il vaso di Pandora delle responsabilità in tal senso (pressoché totali) del Qe perenne e strutturale delle Banche centrali. Di cui Mario Draghi è motore immobile riconosciuto a livello globale.
Ma c’è di peggio. E tutto a livello interno, perché la faccia e i toni del segretario PD tradiscono una tenuta sempre più precaria della lastra di ghiaccio su cui sta pattinando il governo. Primo, occorre giustificare con la gente - soprattutto quella che si riconosce in un’impostazione politica e culturale di sinistra - l’abbuffata di spesa militare in atto, di cui a giorni è atteso il terzo decreto interministeriale relativo a nuove armi inviate a KIev. Questa volta anche pesanti, obici in testa. E questo altra immagine
potrebbe creare qualche ulteriore rogna al segretario PD, poiché graficizza i risultati dell’ultimo studio dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) relativo alle spese militari nel mondo per il 2021. Esatto, l’anno scorso. Quando quindi l’unica emergenza ufficialmente riconosciuta era ancora la pandemia e la Russia non aveva mossa ancora un solo tank verso il confine.
A meno che l’istituto svedese non si sia tramutato di colpo nell’ennesimo strumento di propaganda del Cremlino, scopriamo che per la prima volta in assoluto le spese per warfare mondiali hanno sfondato quota 2 trilioni di dollari. Per l’esattezza, 2,1 trilioni, un +0,7% sull’anno precedente e il settimo anno consecutivo di aumento. Giova ripeterlo: PRIMA dello scoppio della crisi ucraina. Ma non basta. Perché addentrandoci nelle cifre, scopriamo che con i loro 801 miliardi di spesa militare (38% del totale globale), gli Usa hanno battuto DA SOLI gli stanziamenti di nove Paesi messi insieme: Cina (293 miliardi), India (76.6 miliardi), Regno Unito (68.4 miliardi), Russia (65.9 miliardi), Francia (56.6 miliardi), Germania (56 miliardi), Arabia Saudita (55.6 miliardi), Giappone (54.1 miliardi) e Corea del Sud (50.2 miliardi).
E, probabilmente colto da un attacco fulminante di anti-americanismo di ritorno, il SIPRI fa notare anche come - in contemporanea con la pubblicazione del suo report annuale -, Joe Biden non solo abbia rinviato al mittente le richieste di alcuni legislatori per un taglio della spesa del Pentagono ma, anzi, abbia chiesto al Congresso luce verde per circa 813 miliardi di nuovi stanziamenti per la difesa per il prossimo anno fiscale, un aumento di 31 miliardi rispetto alla spesa attuale. Ovviamente, però, è tutta colpa di Vladimir Putin. Le cui intenzioni bellicose erano note fin dal 2021 negli Usa, i quali possono contare su un presidente che - quando non è impegnato a dare la mano all’amico immaginario - legge nella palla di vetro e, casualmente, rende Natale ogni giorno per il comparto bellico-industriale che deve reggere Pil e Wall Street, mentre le altre bolle scoppiano e la Fed gioca a fare il piccolo alchimista sui tassi.
Infine, ecco il vero problema. E anche la ragione per cui Enrico Letta, solitamente pacato, è esploso e ha fatto ricorso a uno slogan degno di una protesta delle Pussy Riot più che di un segretario di partito di governo. Dopo la proposta del ministro Orlando di legare gli incentivi alle imprese agli adeguamenti salariali e al rinnovo dei contratti delle stesse nei confronti dei dipendenti, già definita con garbato eufemismo un ricatto da parte degli imprenditori, ora il problema dell’erosione del potere d’acquisto si fa serio. Primo, perché l’inflazione è ben lungi dall’essere transitorio e il porto di Shanghai con le sue code chilometriche lo conferma. Anzi, aggrava.
Secondo, perché le elezioni amministrative di avvicinano e anche la legislatura volge verso la sua fine. Terzo e fondamentale, nel DEF ci sono solo 6 miliardi a disposizione delle politiche di supporto, fra cui gli aiuti contro il caro-energia. Quindi, la strada maestra resta quella di un frontale con Mario Draghi per ottenere nuovo scostamento di bilancio. Quel deficit che, però, l’Europa non ci consente, salvo attivazione del MES. E a dirci no sarebbe proprio un uomo del PD ed ex presidente del Consiglio, quel Paolo Gentiloni ora Commissario agli Affari economici. Capite perché l’aver scomodato il blame on Putin rappresenta una bandiera rossa di mare ormai in piena tempesta per il governo dei Migliori?
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