Nonostante la natura volubile della pandemia non permetta di accantonare le preoccupazioni sulle prospettive dell’economia italiana, 2.100 Pmi – secondo la Banca d’Italia – hanno già le carte in regola per quotarsi in Borsa.
Circa 2.100 piccole e medie imprese (Pmi) potrebbero lanciare un’offerta di pubblico acquisto (Ipo) a Piazza Affari, nonostante la seconda ondata della pandemia non permetta ancora di tracciare accurate previsioni sulla ripresa dell’economia globale.
Un buon auspicio, in ogni caso, che la Banca d’Italia ha affidato alla “Nota Codiv-19” pubblicata negli ultimi giorni: la stima delle imprese che potrebbero decidere di passare il Rubicone è stata comunque vista al ribasso rispetto alla stagione pre-pandemia, quando l’istituto di Via Nazionale aveva individuato oltre 2.800 Pmi che rispettavano i criteri per l’accesso al mercato dei capitali.
2.100 Pmi potrebbero lanciare un’Ipo nonostante la pandemia
Le 2.100 Pmi che hanno le carte in regola per quotarsi a Piazza Affari sono un segno di resilienza del tessuto imprenditoriale italiano: la pandemia, infatti, tra misure restrittive e perduranti incertezze sul fronte ristori, rischiava di frenare l’appetito delle imprese nostrane.
Certo, come precedentemente accennato, le Pmi candidate sono il 20-25% in meno rispetto a quelle individuate dalla Banca d’Italia nel 2019, ma una comparazione in condizioni economiche e finanziarie radicalmente opposte rischia di essere un esercizio fallimentare.
Avere i parametri in linea con le condizioni imposte dal mercato per il battesimo su Piazza Affari, tuttavia, non si traduce automaticamente in una quotazione in Borsa: se ciò avvenisse, la capitalizzazione del mercato italiano registrerebbe una crescita di 71 miliardi di euro, per un incremento del 4% rispetto al Pil.
Su Borsa Italiana 237 Ipo tra il 2009 e il 2019
La resilienza del fattore Q – ovvero l’indice di quotabilità delle imprese – evidenzia l’insospettabile stato di salute delle imprese italiane, ma sul fronte Ipo il mercato nostrano rimane ad una distanza esponenziale dall’azionario statunitense, dove la propensione alla quotazione delle aziende – basti guardare il boom di offerte pubbliche iniziali in piena pandemia – registra storicamente un elevato livello di solidità.
Tra il 2009 e il 2019, sono state 237 le imprese italiane che hanno deciso di quotarsi in Borsa. Di queste, circa il 75% lo ha fatto nel listino AIM Italia, che tasta il polso ad un paniere di Pmi ad alto tasso di crescita.
Un volume che, nonostante le incoraggianti stime della Banca d’Italia, pone il Paese dietro ai principali competitor europei, come Francia, Regno Unito e Germania. Eppure, alcune misure legislative approvate nell’ultimo decennio hanno – seppur parzialmente - smosso le acque: tra queste, la riduzione dello svantaggio fiscale del capitale di rischio rispetto al debito del 2011 e il credito d’imposta al 50% - datato 2018 – sui costi sostenuti dalle aziende per le Ipo.
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