La Germania che acquista dosi extra rischia di garantire un alibi a copertura delle troppe manchevolezze degli Stati. Sia perché Berlino aveva avvisato il 19 dicembre, sia perché Goldman Sachs metteva in guardia fin dal pharma-rally di Borsa: attenzione alle disponibilità.
48 ore e il clima di rinascita e concordia europea del Vaccine day ha già lasciato lo spazio alle polemiche. E, cosa peggiore, ai ritardi nella somministrazione del siero che dovrebbe aiutarci a recuperare la normalità perduta da ormai un anno.
Al centro della disputa, la decisione della Germania di acquistare altre 30 milioni di dosi di vaccino Pfizer-Biontech, oltre a quelle decise in sede comunitaria e ripartite in base alle esigenze demografiche dei vari Stati membri.
Insomma, Berlino avrebbe giocato sporco. Proprio vero? No. Per tre motivi. Primo, la Germania ha avvisato i partner della propria decisione il 19 dicembre scorso. Nessuno all’epoca ebbe alcunché da obiettare. Guarda caso, la polemica è divampata dopo i primi contrattempi legati al Vaccine day. E, nel caso italiano, agli sgradevoli coté rappresentati dalle contrapposizioni politiche dopo la vaccinazione del governatore campano, Vincenzo De Luca, e dal casus belli relativo all’alto tasso di personale medico-sanitario che non intenderebbe prestarsi alla somministrazione.
Secondo, essendo la Germania presidente di turno dell’Unione fino a domani e di nazionalità tedesca anche la presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, Berlino ha atteso la decisione generale fra gli Stati prima di operare la sua implementazione delle dosi vaccinali. Stante anche il continuo peggioramento del fronte interno della pandemia, tanto da aver già adombrato la possibilità di un prolungamento dell’attuale regime di lockdown duro anche dopo il 10 gennaio.
Essendo Biontech un’azienda tedesca che beneficia di sussidi statali, spingere per un maggior acquisto di dosi da parte dell’insieme dell’Europa avrebbe certamente stuzzicato gli istinti anti-tedeschi di qualche detrattore dell’Ue, pronto a puntare il dito contro la lettera scarlatta del conflitto di interesse. Berlino, quindi, ha chiuso il contratto comune in punta di decisione condivisa e poi, di buon diritto, ha ritenuto che fosse precauzionalmente intelligente opzionare un quantitativo maggiore.
Applausi, altro che critiche. Terzo, sempre la Germania - in questo caso, soprattutto la stampa con lo Spiegel in testa - fin dalla fine di novembre aveva fatto notare come fosse un errore spezzettare troppo le commissioni di acquisto fra le varie case farmaceutiche, semplicemente perché all’atto pratico solo il vaccino di Pfizer e Biontech offriva serie garanzie rispetto alle autorizzazioni, alle consegne e alla disponibilità pressoché immediata.
Ecco, invece, che l’Ue ha deciso di puntare la fiche più pesante della mano su AstraZeneca e Sanofi, preferite al concorrente germano-statunitense per le minori criticità legate al trasporto dei vaccini con riferimento alla temperatura di conservazione e alla conseguente «catena del freddo». Detto fatto, Sanofi appare decisamente in ritardo e l’Ema, l’autorità europea del farmaco chiamata a dare il via libera ai vaccini, ha appena reso noto come il siero di AstraZeneca, quello su cui l’Italia ha puntato maggiormente, difficilmente otterrà l’autorizzazione all’utilizzo entro il mese di gennaio.
Insomma, per quanto attaccare la Germania sia sport nazionale, basta unire i puntini fattuali come nel gioco della Settimana enigmistica per rendersi conto che a Berlino c’è ben poco da imputare. Se non la previdenza, se questo viene ritenuto un difetto.
E che la Germania sapesse cosa diceva, quando in punta di piedi avanzava le sue riserve - sempre contenute nei modi e nei tempi, a causa del timore relativo all’accusa di conflitto di interessi - lo dimostra il fatto che, sul finire di novembre, quando la corsa al vaccino infiammava le Borse, dopo l’annuncio di Pfizer sull’autorizzazione alle porte da parte della Fda statunitense, Goldman Sachs pubblicò un report che metteva tutte quelle criticità in fila. Bastava leggerlo. O, magari, avere almeno contezza della sua esistenza.
Goldman Sachs
Come mostra questo primo grafico, la banca d’affari statunitense aveva scorporato l’offerta di mercato relativa ai vari vaccini in fase di sperimentazione/autorizzazione, cercando di capire in quanto tempo quel quantitativo potenziale di fornitura avrebbe potuto garantire una copertura ottimale alla popolazione mondiale.
Il dato squilibrato rispetto ad AstraZeneca appare evidente, così come quello relativo al vaccino di Johnson&Johnson, il primo a patire uno stop forzato alla sperimentazione a causa dell’insorgere di reazioni anomale nei pazienti sottoposti alla somministrazione. Sanofi, proprio in virtù del suo ritardo sui concorrenti, nemmeno viene contemplata nello studio di Goldman Sachs e, a tutt’oggi, la stessa azienda francese parla apertamente almeno del mese di maggio per lo sbarco autorizzato del suo prodotto.
Insomma, i banchieri avevano già subodorato criticità nemmeno troppo latenti, la politica no. Forse perché i primi hanno bisogno di sano realismo per decidere quale dei rialzi turbo dei titoli farmaceutici fosse sostenuto da qualcosa che non fosse imputabile unicamente alla cosiddetta vaccine euphoria. E che, quindi, non si sgonfiasse una volta entrati in fase attuativa, come mostra questo altro grafico:
Bloomberg
perché se la speranza è una dinamo formidabile per i rialzi, le reazioni allergiche, i ritardi e le varianti del virus non depongono a favore di un rally acritico. Ma non basta. Perché questi altri due grafici:
Goldman Sachs
Goldman Sachs
mostrano come Goldman Sachs, ben prima delle polemiche attuali, avesse ben chiaro quale fosse il quadro prospettico. In primis, fin da principio la banca d’affari fissava attorno alla prima decade di giugno l’obiettivo temporale credibile affinché l’Unione europea vedesse vaccinato contro il Covid il 50% dei suoi abitanti, un dato nettamente in ritardo rispetto alla fine di febbraio preventivato per il Regno Unito e o alla prima decade di aprile per gli Usa. Il tutto in base a proiezioni fatte da analisti che si basavano unicamente su metriche conosciute e pubbliche. Ovvero, dati forniti dalla case farmaceutiche rispetto alla disponibilità e alle tempistiche di approvazione del siero e logistica attuale dei vari sistemi sanitari chiamati operativamente a compiere la vaccinazione di massa.
E anche la questione del tasso potenziale di obiettori al vaccino, variabile importantissima poiché dirimente rispetto al timing del raggiungimento di una copertura tale da garantire l’immunità di gregge, era nota fin da fine novembre con il suo bagaglio di criticità. Poiché se nei Paesi emergenti l’ostacolo principale a un’effettiva immunizzazione della popolazione risiede nel lato dell’offerta da parte delle case farmaceutiche, nei Paesi sviluppati è l’esatto contrario: ovvero, Goldman già prezzava un tasso insufficiente di domanda in determinate nazioni, tanto da fattorizzarlo e prezzarlo nelle sue proiezioni sul raggiungimento del 50% di copertura. E per quanto la banca d’affari newyorchese rappresenti da sempre un’elite assoluta nel suo campo, appare sconfortante come governi e comitati di scienziati ad hoc non abbiano minimamente posto attenzione a queste criticità incombenti, quantomeno nell’atto esiziale della prenotazione in sede Ue delle dosi di vaccino e nella scelta dei fornitori in base al criterio-base della disponibilità immediata.
Certo, prendersela con la Germania ora offre un alibi e un capro espiatorio pronto uso e a forte connotato di attrazione di like sui social network ma la realtà appare testarda. E il passare dei giorni, se accompagnato da un affastellarsi fallimentare di ritardi e inconvenienti, potrebbe spazzare via anche le narrative di comodo.
Perché il successo della campagna vaccinale non è legato soltanto al sacrosanto bene superiore della salute dei cittadini ma anche alla rapidità e alla sostenibilità della ripartenza economica. E in Germania, seppur con ritardo ma partendo da basi macro per superiori alle nostre, lo hanno capito. Agendo di conseguenza.
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