L’India mette in scacco l’accordo cruciale della Cop26 e il malumore cresce. Si prospetta la narrazione di un patto forzato in nome del benessere collettivo.
Dopo il grande insuccesso della Cop25 svoltasi a Madrid nel 2019, con la Cop26 si cercava un passo di cambio decisivo per ridisegnare il destino climatico del paese, ma così non è stato.
I punti all’ordine del giorno erano tanti, i leader degli stati hanno fatto una breve apparizione per lasciare poi tutto in mano alle delegazioni e i negoziati non hanno dato gli esiti sperati, soprattutto su alcuni fronti.
L’intransigenza dei paesi emergenti si è fatta sentire. I problemi più grandi sono stati causati dall’India che ha modificato all’ultimo i termini dell’accordo firmato da circa 200 paesi indebolendo di molto il peso diplomatico del patto stesso. La risposta degli altri stati coinvolti e le questioni trattate sono particolarmente degne di nota.
Obiettivi raggiunti e sfide quasi naufragate
Si tirano le somme della Cop26 e l’oggetto di analisi più importante è il nuovo accordo mondiale sul clima firmato da 197 stati appartenenti alle Nazioni Unite. Nonostante la forte riserva e la delusione espressa da molti si è giunti a una mediazione, una mediazione che però gli attivisti definiscono insoddisfacente e che gli stessi rappresentanti degli stati più attenti alle politiche ambientali criticano senza mezzi termini.
Il patto sul taglio dell’uso del carbone come fonte energetica non è stato risolutivo ad esempio poiché l’invito ai Paesi ad accelerare sulle fonti rinnovabili, a chiudere al più presto le centrali e ad eliminare i sussidi alle fonti fossili rimane tale: un semplice invito.
I tagli alle emissioni rimangono il 45% al 2030 rispetto al 2010 e si punta a zero emissioni nette intorno alla metà del secolo. Resta in rosso poi il tema dei fondi per i Paesi meno sviluppati che hanno denunciato l’assenza nel testo degli impegni per aiutare a decarbonizzare.
Unico passo in avanti è l’obiettivo prioritario di tenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi dai livelli pre-industriali: meglio rispetto all’Accordo di Parigi che puntava sul restare sotto i 2 gradi.
Gli altri temi trattati, per quanto valevoli, non hanno lo stesso peso e risonanza di questi punti.
Il colpo sventato dall’India
La Cina non sferra un attacco netto ma piuttosto chiede «piccoli aggiustamenti» e si dice «pronta a lavorare per proposte costruttive che portino a un testo equilibrato, pragmatico e robusto». Problemi all’orizzonte ma non nel breve periodo.
L’India invece rompe l’equilibrio e chiude quasi del tutto le porte all’uscita dal carbone e al taglio dei sussidi alle fonti fossili.
Il ministro dell’Ambiente, Bhupender Yadav ha infatti detto:
«Non è compito dell’Onu dare prescrizioni sulle fonti energetiche. I Paesi in via di sviluppo come l’India vogliono avere la loro equa quota di carbon budget e vogliono continuare il loro uso responsabile dei combustibili fossili».
Tale tagliente dichiarazione giunge come un fulmine, anche se non proprio a ciel sereno, nella parte finale della plenaria conclusiva quando era complesso portare avanti nuove trattative. Imponendosi piuttosto con una richiesta di sostituzione nel testo della formula «phase-out», cioè «eliminazione graduale» del carbone. Si vira ora verso la «phase-down» cioè la «riduzione graduale». Termine vago e troppo soggetto al dispotismo statuale che rende l’accordo piuttosto annacquato.
La ricerca della mediazione prima di tutto
Niente scontri, solo delusione.
Per evitare di mandare a monte l’intero accordo il presidente della Cop26 Alok Sharma aveva detto che bisognava «chiudere entro oggi».
La delusione di alcuni Paesi, Svizzera in testa (accanto ai piccoli Stati insulari che rischiano più di altri), è stata palese e molti hanno chiaramente espresso profonda delusione per questo cambiamento del testo. Alcuni hanno persino definito la revisione «odiosa e contraria alle regole», ma è stato chiaro che accettare era l’unica via possibile per arrivare ad una conclusione del vertice.
Nonostante queste criticità si è di fatto puntato verso la collaborazione. La rappresentante del Bhutan, a nome del gruppo dei paesi meno sviluppati, ha parlato di un «testo non equilibrato» aggiungendo però:
«Ora non è il tempo di rinchiuderci nelle nostre differenze, ora è il tempo dell’unità».
Il peso diplomatico di questi stati però e relativo. Il problema è che anche le rappresentanze di peso di USA e UE non hanno potuto far altro che accettare. L’inviato Usa per il clima John Kerry e il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans hanno difeso con calore il testo di documento presentato dalla presidenza britannica pur di non rendere del tutto vano il summit.
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