Multa alle Big Tech per mancato intervento. La Russia punta il dito contro Meta e Google imponendo il sostegno aziendale verso le politiche governative.
Una controversia legale si è aperta tra la Russia di Putin e i grandi nome della Silicon Valley quali Google e Meta, l’impresa statunitense che controlla i social network Facebook e Instagram e il servizio di messaggistica istantanea di WhatsApp e Messenger.
Lo stato ha infatti accusato le due aziende di non aver rimosso contenuti considerati illegali da parte del governo e aver quindi, seppur indirettamente, «giocato sporco» ai danni del sistema russo che, proprio a causa di questa situazione, si troverebbe ora più in difficoltà in quella che viene definita come una lotta alla propaganda delle organizzazioni estremiste e terroristiche.
Le questione potrà sembrare di portata inaudita ma, come sottolineano diversi esperti e osservatori della politica sovietica, questo polverone in realtà sarebbe stato alzato per osteggiare la diffusione nel paese di proteste a sostegno di un preciso oppositore: il noto Aleksej Navalnyj, personaggio pubblico salito alla ribalta per la sua avversione al leader della nazione ma anche e soprattutto per il tentato avvelenamento e l’incarcerazione che il partito di Putin avrebbe orchestrato e attuato ai suoi danni.
La multa che non ti aspetti
La notizia è di venerdì 24 ovvero quando un tribunale di Mosca ha corrisposto a Google una multa di 7,2 miliardi di rubli (86 milioni di euro) e una multa di 1,99 miliardi di rubli (circa 24 milioni di euro) a Meta.
A commentare ufficialmente l’atto giudiziario è stato il Roskomnadzor ovvero l’autorità federale russa per la supervisione nella sfera della connessione e comunicazione di massa. In un comunicato l’ente ha spiegato che la pena pecuniaria per entrambe le aziende è stata emessa per rispondere all’inadempienza di Google e Meta nel «rimuovere contenuti che incitano all’odio religioso, all’uso di droghe e opinioni affini a organizzazioni estremiste e terroristiche».
Le somme che entrambe le società dovrebbero versare sono quindi state calcolate dal tribunale sulla base delle entrate annue delle due società nel paese che, nello specifico, ammontano a circa l’8 per cento del totale.
Non c’è stato contraddittorio al momento da parte di Meta mentre Google, pur non replicando alla decisione del tribunale, ha fatto sapere che «studierà attentamente il fascicolo della sentenza».
Motivazioni politiche; questione di «sicurezza nazionale»
Il dato più importante da osservare se si intende analizzare a fondo questa vicenda è l’assenza di specificazioni sui contenuti elencati nelle carte del tribunale.
Pur descrivendone i contenuti a grandi linee non sono stati resi noti i titoli, il tipo di immagini, i testi o i video bollati come sovversivi. Il dato ancor più paradossale è che, al netto di questa vaghezza, i contenuti incriminati sono stati numerati con un totale che ammonta a 2.600 per Google e più di 2mila tra Facebook e Instagram.
Per tale motivo adesso tutti puntano il dito sul movimento politico che fa capo a Alexei Navalny. Navalny del resto è il principale oppositore del presidente Vladimir Putin e, nonostante stia scontando da febbraio la sua condanna a tre anni e mezzo di carcere per “aver violato la libertà vigilata”, tutti sono coscienti del pericolo che l’uomo rappresenta per i vertici del partito proprio a causa del suo fervente attivismo politico e del suo vasto numero di sostenitori “arruolati” tra le fila dei civili che si battono per la sua liberazione così come per il sostegno della sua ideologia.
Possiamo connettere il fronte di Navalny alla questione anche perché a giugno un tribunale di Mosca aveva dichiarato le organizzazioni da lui fondate “illegali ed estremiste” equiparandole a noti gruppi terroristici come al Qaida con pene fino a dieci anni di prigione per finanziatori e membri. La più nota branca del suo movimento non a caso era la Fondazione anticorruzione FBK che ha pubblicato diverse note inchieste sulla corruzione della classe dirigente russa; sono in molti a pensare che i contenuti contro i quali il tribunale oggi punti il dito siano proprio questi.
Il connubio tra richiesta (e ottenimento) di censura e il gruppo sovversivo di Navalny affonda poi le loro radici in una vecchia storia: la creazione da parte del movimento di un’app per spingere al voto di candidati di opposizione o non allineati al governo in vista delle “destituzione democratica” della figura di Putin. In breve tempo il governo aveva fatto in modo che quell’app venisse cancellata dall’App Store di Apple e dal Play Store di Google.
La vera domanda da porsi però, al netto di queste connessioni abbastanza inconfutabili, è questa: è veramente competenza delle Big Tech tracciare la linea di confine tra quel che deve essere sottoposto alla censura o meno? Deve inoltre un governo, ovvero un’entità statale sovrana, impartire un compito di natura prettamente politica ad una società privata punendola se poi questa non segue la linea del partito in carica?
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