Il crollo di Taiwan è il proxy della guerra dei microchip. Tra Philadelphia e Pechino

Mauro Bottarelli

12 Maggio 2021 - 16:05

La Borsa di Taipei perde quasi il 9% trascinata al ribasso da TSMC, leader mondiale dei semiconduttori. La stessa azienda che a gennaio annunciava investimenti in Arizona e mandava in orbita l’indice settoriale Usa. A scatenare le vendite, un margin debt ingestibile e l’allarme Covid sull’Isola. Ma chi ha schiacciato il bottone «panic» e inviato il segnale?

Il crollo di Taiwan è il proxy della guerra dei microchip. Tra Philadelphia e Pechino

Qualcuno sta giocando sporco, utilizzando Taiwan come pericoloso proxy di una guerra di lungo corso che sta per vivere il suo salto di qualità? Il quasi -9% patito dall’indice benchmark della Borsa di Taipei (Taiex), peggior calo intraday nei suoi 54 anni di storia, ha molti potenziali padri ma, ovviamente, una sola madre. E tutto sembra partire da questa copertina dell’Economist

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Fonte: The Economist
di due settimane fa, terribilmente profetica. Ovviamente, il settimanale britannico si riferiva alla valenza geopolitica dell’Isola asiatica, da sempre al centro del concetto di One China ritenuto una red line da Pechino e a quella industriale, essendo sede della TSMC, leader al mondo di semiconduttori e quindi nuovo Sacro Graal del settore tech e automotive mondiale.

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Fonte: Bloomberg

Ma ecco che, di colpo, Taipei finisce al centro di una tempesta perfetta, il cui occhio del ciclone è appunto il mercato finanziario. Ma la tensione parte da lontano, esattamente dal 10 gennaio scorso, quando l’uscente titolare del Dipartimento di Stato, Mike Pompeo, decideva unilateralmente la fine del regime di restrizioni auto-imposte dagli Usa verso Taiwan, proprio in ossequio al principio non scritto di One China. Tradotto, fine del riconoscimento di quello status di controllo cinese sull’Isola, da quel momento di fatto intesa come sovrana e indipendente da Washington. Pechino reagì in maniera durissima a livello diplomatico, tanto da costringere l’ambasciatrice Usa all’Onu, Kelly Craft, a rinunciare all’ultimo minuto proprio alla missione che aveva in programma a Taipei. Lo scontro era ormai prossimo, Washington lo aveva capito. Meglio abbozzare.

Ma anche la Cina aveva inteso cosa si stesse muovendo sottotraccia. Perché solo quattro giorni dopo, il 14 gennaio, il Philly Semiconductor index toccò il suo record storico. La ragione? Un’impennata dei titoli legati al chip equipment dopo che proprio la Taiwan Semiconductor Manufacturing (TSMC), leader mondiale del settore, ha comunicato una spesa di CapEx per il 2021 pari a 28 miliardi di dollari, somma definita sconcertante dalla stessa Bloomberg nella sua analisi. E il fil rouge che legava le due notizie era il fatto che la gran parte di questo investimento in capitale fisso avrebbe riguardato la costruzione di un impianto in Arizona, destinato a servire la clientela americana di quei minuscoli ma fondamentali accessori tech. Un do ut des, insomma. Certificato a priori dal fatto che TSMC, a differenza dei concorrenti diretti come United Microelectronics e Semiconductor Manufacturing International Corporation, è esentata dal regime sanzionatorio deciso da Dipartimento di Stato e Tesoro Usa.

Con Ford costretta a bloccare la produzione a Louisville e Toyota quella di Tundra a San Antonio, in Texas, l’America muoveva le sue pedine. Ed eccoci all’oggi. Perché la Borsa di Taipei, 2 trilioni di dollari di capitalizzazione, è pesantemente sbilanciata sul comparto tech e a guidare il tracollo di questa notte è stata proprio TSMC, capace di irradiare il fall-out anche al compato chip giapponese. Segno che dietro all’accaduto ci sono forze decisamente di primo livello, mani forti. Resta da capire quali, se statunitensi o cinesi. In entrambi i casi, chi ha mosso le carte in quel modo voleva mandare un segnale a Taipei rispetto alla spericolatezza di una strategia dei due forni. E il perché è presto detto: qualcuno ha innescato una clamorosa margin call, partendo da un presupposto figlio legittimo del Qe globale e del suo azzardo morale.

Da inizio anno il margin debt sulla Borsa di Taipei era cresciuto del 46% a quota 9,8 miliardi di dollari in aprile, il massimo dal 2011 e a fronte di un indice benchmark che nel medesimo arco temporale aveva guadagnato «solo» il 19%: un ricorso al leverage molto rischioso, poiché la velocità con cui chi investe chiedeva denaro in prestito era quasi il triplo dell’apprezzamento dei titoli su cui si scommetteva. Detto fatto, qualcosa ha attivato un processo di deleverage forzato su quell’eccessiva esposizione debitoria. Accelerato poi dalla dinamica mostrata da questo grafico,

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Fonte: Bloomberg
il quale mostra l’escalation dei contagi in atto a Taiwan a fronte di una popolazione per la stragrande maggioranza non vaccinata. Insomma, come riportato dal Liberty Times, il timore è quello di un repentino peggioramento della situazione che porti a un blocco delle attività produttive e del commercio. Già oggi, il governo parla di chiusura degli esercizi non essenziali e di riduzione del numero di persone che possono incontrarsi, 5 al chiuso e 10 all’aperto.

Di fatto, un fulmine a ciel sereno per l’Isola, finora una sorta di zona franca dalla pandemia. Ed ecco che, al netto di un pessimismo generale degli analisti che temono un ulteriore calo dell’indice benchmark addirittura in area 14.000 punti, come mostra il grafico,

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Fonte: Bloomberg
quanto accaduto soltanto due giorni fa negli Usa sembra riportare in auge il fil rogue iniziale e mostrare i fili che stanno muovendo invisibilmente le marionette di questa rappresentazione della nuova guerra commerciale. Questo grafico

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Fonte: Bloomberg
mostra come lo stesso indice dei semiconduttori di Philadelphia che il 14 gennaio festeggiò con il suo massimo storico il CapEx di TSMC, il 12 maggio abbia patito un calo del 4,7%, il peggiore dell’8 marzo, entrando in territorio di correzione. Qualcuno sta giocando a destabilizzare/stabilizzare Taiwan, utilizzando la Borsa di Taipei e la sua componente più importante come pallina in una partita di ping-pong geopolitico e industriale? Il dubbio, già forte, dopo quanto accaduto stanotte diviene con il passare delle ore sempre più certezza. Chi ha mosso la pedina che ha scatenato il domino, però? Washington o Pechino?

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