Storia del conflitto israelo-palestinese: da dove ha avuto origine e perché. Chi c’era prima, la Palestina o Israele?
Non è come rispondere alla domanda “è nato prima l’uovo o la gallina”, perché sappiamo chi c’era prima nello spazio geopolitico che oggi chiamiamo “Israele”, ovvero la Palestina. Questo perché il paese era riconosciuto già ai tempi degli antichi romani. Eppure una buona parte della narrazione dei media, che riprende quella ufficiale di Israele, vuole la Palestina appartenere per motivi religiosi e falsi storici agli ebrei-israeliani.
È solo comprendendo questo passaggio, ovvero chi c’era prima tra Israele e Palestina, che si possiamo tentare sciogliere i nodi della questione israelo-palestinese. I fatti più o meno recenti che hanno portato i due popoli a scontrarsi si basano proprio sul conflitto territoriale: mentre sulla Striscia di Gaza la rivendicazione di Israele viene perpetrata attraverso bombardamenti, in Cisgiordania viene attuata attraverso l’occupazione illegale da parte dei coloni israeliani ai danni di proprietari di terreni e case arabi-palestinesi. Non una novità per Israele.
Questo cosa ci dice della storia della Palestina? Che al momento è in corso l’ultima corsa alla colonizzazione sionista dei territori palestinesi.
Chi c’era prima Israele o Palestina?
Per rispondere alla domanda “chi c’era prima Israele o Palestina?” non si può evitare di parlare di terra e di storia antica, molto distante rispetto ai recenti eventi. Il Paese infatti era conosciuto già al tempo dei romani, ne abbiamo contezza grazie alla Bibbia certo, ma la Palestina esisteva già da prima. Ai romani però si può dare il riconoscimento di aver battezzato la terra come “Palestina”. Ilan Pappé, storico israeliano ed ebreo anti-sionista, spiega che al tempo dei romani la Palestina era una provincia imperiale, il cui destino venne largamente determinato dalle fortune di Roma prima e di Costantinopoli poi.
In Dieci miti su Israele lo storico scrive:
Dalla metà del 7° secolo in avanti, la storia della Palestina si unì a quella del mondo arabo e di quello islamico (a eccezione di un breve intervallo nel periodo medievale durante il quale venne ceduta ai crociati). Diverse dinastie musulmane del nord, dell’est e del sud della regione aspiravano a controllarla.
Fu però il periodo degli ottomani, che restarono nella regione per quattrocento anni, quello più rilevante. Yonatan Mendel, docente del Dipartimento di Studi sul Medio Oriente, ha ricordato come al loro arrivo nel 1517 gli ottomani trovarono una società principalmente agricola e composta per la maggior parte da musulmani sunniti, con una ristretta élite urbana che parlava arabo. Meno del 5% della popolazione era ebreo e una percentuale che andava dal 10 al 15 era cristiana. In altre parole: la percentuale esatta di ebrei prima dell’ascesa del sionismo si aggirava tra il 2 e il 5% della popolazione. Ancora nel 1878 nei registri ottomani risultava una popolazione totale di 462 mila residenti, di cui l’87% musulmani, 10% cristiani e il 3% ebrei.
La storia però è raccontata in maniera differente dall’attuale Israele. Sul sito del ministero degli Esteri israeliano si legge che:
“In seguito alla conquista ottomana del 1517 il territorio venne suddiviso in quattro distretti, assegnati al controllo amministrativo di Damasco e governati da Istanbul. All’inizio dell’era ottomana, all’incirca mille famiglie ebraiche vivevano nel paese, principalmente a Gerusalemme, Nablus (Sichem), Hebron, Gaza, Safad (Tzfat) e in alcuni villaggi della Galilea. Queste comunità erano composte dai discendenti di quegli ebrei che da sempre vivevano su quella terra insieme a immigrati provenienti dall’Europa e dal Nord Africa.”
In altre parole: nel 16esimo secolo la Palestina appare abitata principalmente da ebrei.
Il ministero degli Esteri dice altro, ovvero che non c’erano foreste e che i terreni agricoli nel 18esimo secolo erano ormai deserti. Da qui il mito della Palestina come un terreno vuoto da occupare. Tale ricostruzione storica, che ha lo scopo di cancellare la casa dei palestinesi, è stata più volte contestata dagli stessi studiosi israeliani come Amnon Cohen e Yehoshua Ben-Arieh e David Grossman (non il famoso autore, bensì il demografo). Secondo questi la Palestina non era affatto un deserto, ma una fiorente società araba, per lo più musulmana e prevalentemente rurale con alcuni vivaci centri urbani.
Gli ebrei popolo senza terra?
Gli ebrei hanno convissuto con l’idea del “fare il ritorno alla terra promessa”, identificata come la Palestina. Ma si sa: il sionismo trovava la sua legittimazione in un antisemitismo di vecchia data ed è proprio nelle affermazioni antisemite occidentali che si ritrova l’idea di restituire loro una patria per allontanarli. Napoleone Bonaparte stesso venne influenzato da un famoso scrittore e politico francese nell’idea che i legittimi padroni della Giudea fossero gli ebrei, ovvero una minoranza del paese di cui però Napoleone voleva ottenere l’aiuto. Al comandante serviva infatti tutto l’appoggio possibile per occupare il Medioriente all’inizio del XIX secolo ed è per questo che Napoleone promise un r“itorno in Palestina e la creazione di uno Stato indipendente” alla minoranza ebraica. Peppé scrive, non a caso, che il sionismo era originariamente un progetto coloniale cristiano, prima che ebraico.
Anche la Gran Bretagna vittoriana del 1800 venne ampiamente influenzata da un movimento teologico che aveva come scopo il ritorno degli ebrei in Palestina. Per giustificarlo la cultura anglosassone veniva raccontato che il suolo palestinese attendeva la capacità agricola e industriale del popolo ebraico per far sbocciare nuovamente la terra come ai tempi di Salomone. Tante piccole affermazioni che nell’insieme costituiscono la base ideologica e culturale, ma anche politica che ha portato a considerare e poi a giustificare non solo la presenza dello Stato di Israele, ma anche il suo allargamento (con tutti i mezzi) nei territori degli arabi palestinesi.
Quando è iniziata la guerra tra Israele e Palestina?
Fu proprio il sionismo cristiano in Gran Bretagna e in Europa a far crescere l’ossessione per la Palestina come l’unico territorio in cui il sionismo poteva prendere vita. Dopotutto il “ritorno degli ebrei”, cioè il progetto sionista di colonizzare la Palestina, permetteva la creazione di un’Europa senza ebrei. Venne così presa la Bibbia come mappa per la colonizzazione sionista della Palestina fin dal 1948, quando venne creato lo Stato di Israele. La narrazione di Israele come la “terra promessa da Dio ad Abramo” nella Bibbia era fondamentale tanto per la politica interna quanto per quella estera.
Bibbia vuole - ma ricordiamo non rappresenta una fonte storica né scientifica - che dopo il 70 d.C., quando i romani esiliarono il popolo ebraico, la terra rimase disabitata. Questa era la storia da scrivere per giustificare l’insediamento di un altro popolo in Palestina e in seguito anche per giustificare la pulizia etnica di questo. Deus vult!
Fin dall’inizio i palestinesi erano raccontati come degli “estranei” dagli israeliani, o per utilizzare le parole del primo ministro al momento della fondazione David Ben Gurion, i palestinesi apparivano come “un focolaio infestato di dolore” con cui “non abbiamo nulla in comune” e che “ci risultano più strani del contadino russo o polacco”. Anche se era stato raccontato che la Palestina era vuota, questo territorio era tutt’altro che spopolato.
Diversi personaggi politici utilizzarono la profezia biblica allo scopo di giustificare la colonizzazione, scopo che oggi possiamo ritrovare nel partito Likud retto proprio da Benjamin Netanyahu.
Sempre usufruendo della Bibbia come fonte storica, gli ebrei hanno ricostruito sulle rovine dei paesi palestinesi distrutti i kibbutz, affermando però che questo erano vecchi siti ebraici menzionati nella Bibbia e che abitarvi non era “occupazione” ma “liberazione”.
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Ma com’è iniziata l’occupazione della Palestina popolata?
È vero che i palestinesi se ne andarono volontariamente? Nel 1937 Ben Gurion scrisse: “Con il trasferimento forzato avremmo una vasta area di insediamento… Io supporto il trasferimento forzato. Non ci vedo nulla di immorale”.
Il trasferimento forzato fu pensato e realizzato con estrema cura, perché bisognava attendere il momento perfetto per il trasferimento di una grande massa di persone e quel momento fu il 1948. Per gli arabi questo evento, ovvero quando Israele combatterono contro diversi paesi arabi (che rifiutarono la risoluzione della fondazione lo stato di Israele) e vinsero, viene ricordato come la catastrofe, in arabo “nakba”. Circa 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case e centinaia di villaggi vennero distrutti per far spazio agli israeliani che si trovarono quindi a controllare un territorio molto più ampio rispetto a quello proposto dall’ONU, che ripartiva la terra per il 56% agli ebrei e il resto ai palestinesi.
Un’altra data fondamentale è il 1967, un conflitto noto come la Guerra dei 6 giorni. Israele aveva 19 anni ed aveva affrontato già un altro conflitto, ovvero la Crisi di Suez nel 1956. Israele era circondato da Stati arabi che non vedevano di buon occhio la sua presenza e le sue azioni contro il popolo arabo locale. Così diversi fattori portarono gli Stati arabi in fermento, a partire dalla corrente di pensiero panaraba promossa dal leader egiziano Gamal Abdel Nasser. Fu proprio Nasser, insieme alla Siria, a favorire la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Israele riuscì a cogliere di sorpresa l’esercito egiziano che era preparato bene allo scontro, prima facendo pressione all’ONU affinché ritirasse le proprie forze di pace sul Sinai e poi stringendo un’alleanza difensiva con la Giordania (l’odierna Cisgiordania). In sei giorni la guerra era conclusa e l’8 giugno l’Egitto accettò il cessate il fuoco. Con questa vittoria Israele si era garantita la sopravvivenza e aveva anche messo piede nel Sinai, nelle alture del Golan, nella Striscia di Gaza e diverse città arabe della Cisgiordania. Così facendo aveva confermato nuovamente al mondo arabo di essere una potenza di occupazione. È proprio la diffusione delle coloni israeliani che oggi impedisce futuri di pace tra i due popoli.
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