La Corte di Cassazione ha condannato la Lega per l’uso scorretto del termine «clandestini» nei confronti di alcuni richiedenti asilo. Ecco chi sono davvero i «clandestini» secondo la Corte.
Migranti, clandestini, immigrati, extracomunitari, parole usate nella quotidianità come sinonimi e spesso anche in modo improprio, ma che in realtà hanno precise distinzioni dal punto di vista legale. Posto che ci sono differenze di significato non sottili tra questi termini, è chiaro che anche un’imprecisione può essere importante, soprattutto quando sono attribuite connotazioni negative in modo errato.
Fra le parole citate, quasi tutti i termini sono neutri seppur diversi tra loro, mentre soltanto “clandestini” ha una spiccata accezione negativa. Essere clandestino significa trovarsi in una situazione non regolare o non svolgere un’attività nel modo stabilito, violando perciò la legge. Non si tratta di una sfumatura data dall’uso sociale, ma deriva proprio dalla terminologia. Ecco perché serve più attenzione, soprattutto alla luce della recente sentenza della Corte di Cassazione.
Chi sono davvero i clandestini secondo la Cassazione
La Corte di Cassazione si è pronunciata sulla vicenda che ha visto coinvolti la Lega e una manifestazione del 2016, a Saronno, con cui si contestava la presenza di 32 “clandestini” nel centro d’accoglienza. La Corte ha accolto il ricorso delle associazioni Asgi e Naga, secondo i quali era stata attuata una “molestia discriminatoria”.
La Corte di Cassazione ha infatti rilevato che le persone in questione avevano richiesto asilo, pertanto non considerabili come clandestini, e ha condannato la Lega al pagamento di un risarcimento danni nei confronti delle associazioni ricorrenti, oltre al rimborso delle spese. Oltre al fatto che anche attenendosi al solo significato i termini “clandestino” e “richiedente asilo” sono molto diversi, ciò che ha rilevato per la Corte è stata la connotazione negativa del primo termine, ingiustamente affibbiata a persone fragili, maggiormente meritevoli di tutela.
Ribadendo le affermazioni del Trattato di Roma, la Cassazione ha concluso che
gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello Stato italiano perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel Paese di origine, di subire un “grave danno”, non possono a nessun titolo considerarsi irregolari e non sono dunque “clandestini”.
Anche perché altrimenti verrebbe meno l’esistenza stessa delle misure di protezione e aiuto nei confronti dei richiedenti asilo previste dall’Onu e dalla Convenzione di Ginevra. Si ricorda, oltretutto, che i sistemi di protezione, come quello dello status di rifugiato, sono riservati a necessità gravi e urgenti, quali le questioni di sopravvivenza e libertà.
Gli avvocati della difesa avevano obbiettato con il diritto alla libera manifestazione politica, che la Corte ha ritenuto non poter essere prevalente rispetto alla dignità personale degli individui, specie se appartenenti a categorie più fragili.
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Chi sono i «clandestini» e quali sono le differenze con le altre parole
Esistono delle precise e non banali differenze semantiche tra i termini impiegati per definire gli stranieri, differenze che hanno però finito con l’essere per lo più ignorate in favore di quelle concettuali. Nel corso degli anni, infatti, si è diffuso un uso sempre meno preciso di queste parole, usate non solo come sinonimi ma anche con vere e proprie tendenze temporali.
Questo perché si è finito per l’attribuire ai termini delle connotazioni positive o negative e l’utilizzo nel parlare comune, ma anche di riflesso da parte dei media, ne è stato notevolmente influenzato. Tra gli esempi, si può fare riferimento al termine extracomunitario, che letteralmente indica una persona proveniente da un Paese al di fuori dell’Unione europea ma che ha assunto un tono dispregiativo e razzista.
Difficilmente un americano in Italia viene definito extracomunitario, mentre si sente usare questo termine per le persone di nazionalità rumena, anche dopo l’entrata della Romania dell’Ue. Ancora, l’italiano che si reca all’estero per studiare o lavorare è un expat, mentre un africano in Italia viene definito immigrato.
Si tratta ovviamente di generalizzazioni, peraltro confermate anche da esperienze documentate da diversi autori, tra cui come Stephen Castles e Mark J. Miller, che sono però con tutta evidenza molto aderenti alla realtà. A lato delle questioni culturali e soggettive, segue la definizione puramente semantica dei termini in questione.
- Migrante: in migrazione, non ha ancora completato lo spostamento.
- Immigrato: si è trasferito in un altro Paese, nel senso più specifico per motivi di lavoro a causa dei dislivelli economici tra i Paesi.
- Extracomunitario: che non fa parte dell’Unione europea.
- Clandestino: abusivo, non conforme alle leggi e alle procedure per entrare in un Paese.
- Expat: si è trasferito all’estero per motivi di lavoro, letteralmente “espatriato”.
- Straniero: proveniente da un altro Paese.
- Irregolare: persona entrata clandestinamente senza il controllo previsto oppure alla quale è scaduto il visto o permesso di soggiorno.
- Rifugiato: scappato in un altro Paese per ottenere protezione.
- Profugo: scappato per ragioni di sopravvivenza, anche all’interno del proprio Paese.
- Richiedente asilo: ha presentato la richiesta di protezione, ad esempio il riconoscimento dello status di rifugiato.
Per i caratteri di necessità e urgenza previsti per la richiesta di asilo, non sono considerabili clandestine le persone che hanno già presentato la domanda, indipendentemente dalla regolarità dell’accesso in Italia o del soggiorno.
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