Il “mobbing”, dapprima studiato da sociologi e psicologi ha raggiunto ormai l’attenzione dei nostri tribunali. Vediamo come la giurisprudenza ha cercato di regolare la fattispecie e come provarlo.
Il fenomeno del mobbing si è manifestato nel corso degli ultimi decenni con una significativa espansione ed il mondo giuridico, da sempre attento alla tutela della persona, ha iniziato ad interessarsi sempre più da vicino a questo fenomeno sociale, di tipo patologico ormai diffuso nei luoghi di lavoro. Difatti, il contesto principale nel quale si è iniziato a far riferimento al mobbing come a un comportamento illecito, giuridicamente rilevante, è quello dell’ambito del lavoro.
Come fenomeno sociale è stato affrontato e definito da molteplici studiosi. Il criterio principe, per individuare le azioni che possono configurare un caso di mobbing lavorativo è rappresentato, in linea di massima, da ogni tipo di condotta impropria che si manifesti attraverso comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di mettere in pericolo l’impegno o di degradare il clima lavorativo. Parliamo di condotte perpetrate nel tempo e guidate da un intento persecutorio, che inevitabilmente recano un danno al soggetto mobbizzato di tipo fisico, morale e psicologico.
In Italia il mobbing non è normato specificatamente da un’apposita legge. Il vuoto normativo è stato però colmato da una giurisprudenza consolidata e diversi sono gli strumenti di tutela offerti ormai dall’ordinamento.
In questa guida analizziamo l’orientamento dei Tribunali e poniamo particolare attenzione, in funzione dell’ottenimento di un risarcimento danni, al discorso dell’onere della prova.
Come dimostrare di essere vittima di mobbing
Mobbing, cos’è?
Il mobbing è un fenomeno subdolo, si manifesta molto spesso in maniera nascosta come, per esempio, l’isolamento sociale della vittima. Possiamo individuare alcuni elementi che sono indispensabili a connotare una serie di azioni come “mobbizanti”.
Dal punto di vista oggettivo devono manifestarsi pluralità e reiterati comportamenti lesivi, ripetitività e sistematicità degli “attacchi” da parte del soggetto che agisce, che può essere il datore di lavoro, superiore o collega, nei confronti del lavoratore, predisposti ad ingenerare un disagio grave nella vittima.
Ad esso si aggiunge l’elemento soggettivo, ovvero lo scopo persecutorio, la volontà del soggetto agente di nuocere, discriminare il lavoratore o emarginarlo attraverso condotte lesive, reiterate nel tempo e sistematiche.
Ogni singolo atto persecutorio assume, quindi, rilevanza solo se è sorretto dallo specifico intento di spingere la vittima all’emarginazione nell’ambiente lavorativo ed in quanto sia reiterato e protratto sistematicamente nel tempo.
Infine il nesso di causalità: affinché si possa parlare di mobbing, non è sufficiente la sola realizzazione di plurime condotte illegittime, ma è necessario che il lavoratore riesca a provare, attraverso diversi elementi, che i comportamenti e le condotte vessatorie subite, siano il frutto di un disegno persecutorio unificante e preordinato.
Tipologie di mobbing
Per quanto attiene le tipologie di mobbing, distinguiamo un tipo individuale, qualora le condotte siano rivolte ad un unico soggetto ed un mobbing collettivo, ove le condotte abbiano ad oggetto un gruppo di lavoratori.
A seconda dei soggetti coinvolti e soprattutto della loro posizione nella gerarchia aziendale, è possibile individuare altre tipologie di mobbing:
- mobbing verticale, quando la condotta persecutoria coinvolge soggetti collocati a diversi livelli della scala gerarchica;
- mobbing orizzontale, quando la condotta mobbizzante è posta in essere da uno o più colleghi posti allo stesso livello della persona che ne è bersaglio.
Per il mobbing verticale è inoltre prevista una ulteriore suddivisione, ovvero:
- mobbing discendente, quando i comportamenti aggressivi e vessatori sono posti in essere dal datore di lavoro, da un superiore gerarchico della vittima ed hanno una finalità ben precisa: quella di estromettere il lavoratore, determinando la sua volontà di lasciare l’azienda;
- mobbing ascendente, quando viceversa un lavoratore di livello più basso attua mobbing contro un suo superiore o nei confronti del datore di lavoro stesso.
La normativa di riferimento per la tutela del lavoratore
Come detto, nel nostro Paese, non esiste una definizione normativa, né una specifica disciplina normativa del mobbing e, pertanto, ai fini della tutela del soggetto mobbizzato si ricorre, per quanto compatibili, alle norme civilistiche e penalistiche, nonché ai principi ricavabili dagli orientamenti consolidati in materia da parte della giurisprudenza e della dottrina.
Su questo fenomeno va infatti evidenziata una cospicua riflessione dottrinale e l’ormai diffusa elaborazione giurisprudenziale.
Oltre agli articoli della Costituzione e del codice civile ci sono le disposizioni contenute nelle leggi speciali come lo Statuto dei lavoratori (Legge n. 300/1970), il Codice delle pari opportunità (Dlgs n. 198/2006) e il Testo Unico per la sicurezza del lavoro (Dlgs n. 81/2008).
La Costituzione per prima, con sei articoli, tutela i diritti dell’individuo e della collettività in ambito lavorativo. Essa riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell’uomo.
Precisamente:
- all’art. 2, tutela la persona e il suo valore, sia come singolo che come soggetto inserito in un contesto sociale;
- all’art. 3, stabilisce il principio di uguaglianza formale e sostanziale per scongiurare qualsiasi forma di discriminazione e attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli per la realizzazione di questo obiettivo;
- all’art. 4, riconosce, da parte della Repubblica, il diritto al lavoro, promuovendo le condizioni necessarie per rendere effettivo questo importante diritto che è sancito dall’art. 1;
- all’art. 32, riconosce il diritto al lavoro in forma individuale e collettiva;
- all’art. 35, sancisce l’impegno della Repubblica nel tutelare il lavoro in tutte le sue forme;
- all’art. 41, infine, tutela la libera iniziativa economica con il limite di non porsi in contrasto con l’utilità sociale e di non recare danno alla sicurezza, alla dignità e alla libertà umana.
Per il datore di lavoro si individuano numerosi profili di responsabilità giuridica, non solo quando egli costituisce il soggetto stesso delle condotte mobbizzanti di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo, ma anche quando questo tolleri azioni altrettanto deplorevoli messe in atto dai dipendenti della propria azienda.
La dottrina individua nell’art. 2087 del Codice civile una norma di chiusura del sistema di tutela dell’integrità del lavoratore.
In esso viene sancito che:
“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, seconda la particolarità del lavoro, l’esperienza la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro."
Si costituisce quindi un obbligo del datore di lavoro a prevenire o far cessare condotte mobbizzanti da parte di colleghi o superiori.
Gli obblighi del datore di lavoro
Il datore di lavoro ha l’obbligo generale di impedire, attraverso una attività di vigilanza costante, ogni eventuale comportamento vessatorio e aggressivo da parte dei suoi collaboratori nei confronti dei lavoratori, nonché da parte degli stessi colleghi di lavoro del lavoratore, pena la propria responsabilità diretta ex art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore, anche se la condotta mobbizzante è stata posta in essere da altro collega o proprio collaboratore.
L’autore materiale del fatto, se diverso dal datore di lavoro, risponderà (extracontrattualmente) del danno ingiusto cagionato al lavoratore ai sensi dell’art. 2043 c.c. quindi, la sua responsabilità si aggiunge a quella del datore di lavoro.
Il mobbing può essere causato da condotte in grado di configurare una responsabilità di tipo:
- contrattuale la cui fonte è rinvenibile principalmente nell’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro" ;
- extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c. applicabile quando la condotta è tenuta da parte di un soggetto a cui il mobbizzato non è legato da un vincolo contrattuale. Pensiamo alle angherie messe in atto dai colleghi.
I comportamenti mobbizzanti, inoltre, a determinate condizioni possono cagionare delle conseguenze riconducibili al reato di lesioni personali di cui all’articolo 590 del codice penale.
Come provare il mobbing subito sul luogo di lavoro
Il lavoratore che intenda ottenere un risarcimento dei danni per mobbing può fare appello tanto al diritto del lavoro con lo Statuto dei lavoratori, quanto alla giurisprudenza civile e penale.
Sia in caso di mobbing orizzontale che verticale, bisogna essere certi della condotta di colui che agisce come «mobber».
Se si è in presenza di un trattamento persecutorio, gli atteggiamenti di violenza psicologica saranno frequenti e reiterati per un lasso di tempo non inferiore a 6 mesi.
Tale condotta andrà a ledere la salute e la dignità del lavoratore o potrà causargli, ad esempio, depressione o istinti autolesionisti e tale atteggiamento avrà come fine quello di nuocere il lavoratore fino a costringerlo alle dimissioni o all’allontanamento dal posto di lavoro. Si tratta dunque di provare «azioni ostili», premeditate e persecutorie.
In funzione dell’ottenimento di un risarcimento danni, affrontiamo ora il discorso dell’onere della prova.
Conoscere i mezzi di prova ammessi e i consigli per vincere una causa contro il datore o un collega è fondamentale.
La vittima di mobbing è gravata dall’onere di dare la prova delle condotte realizzate in suo danno, del danno patrimoniale o esistenziale subito, dell’eventuale incidenza di tale danno sulla sua integrità psico-fisica..
Egli dovrà rigorosamente provare:
- il danno subito, quindi la lesione della sua integrità psico-fisica;
- il proprio stato di “vittima di persecuzioni e vessazioni“ in ambito lavorativo, e dunque l’esistenza di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro esistente tra le parti (ex art. 2087 c.c, art. 2103 c.c.);
- il nesso causale tra la condotta datoriale o dei colleghi e l’evento dannoso.
Affinché una serie di comportamenti illegittimi o astrattamente legittimi possano integrare la fattispecie del «mobbing» è necessario che questi rientrino in una medesima strategia finalizzata intenzionalmente alla esclusione del lavoratore. Tanto più una condotta è meramente emulativa, anomala, infondata e gratuita ed anti-economica per colui che la pone in essere, tanto più la stessa è idonea ad integrare il fenomeno mobbing. Lo sono ad esempio le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie.
La vittima di mobbing dovrà provare, poi, che tali comportamenti non sono sfociati in un unico evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale mediamente lungo, cioè per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto lavorativo.
Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito. Essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione.
Infine dovrà essere accertato lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito.
Novità dalla Cassazione, ultime sentenze sul mobbing
Il reato di mobbing non è contemplato dal nostro ordinamento come fattispecie autonoma di reato.
La giurisprudenza però in molte occasioni ha inquadrato il mobbing in fattispecie penali esistenti, come il reato di maltrattamenti di familiari e conviventi (art 572), la violenza privata (art. 610 c.c.), le lesioni personali dolose o colpose (art. 582 e 590 c.p), la violenza sessuale (art. 609 bis c.p), la molestia o il disturbo alle persone (art. 660 c.p), l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p), le minacce (art. 612 c.p)
Gli effetti delle condotte di mobbing possono assumere rilevanza civilistica sotto due profili; quello risarcitorio alla stregua degli artt. 2087 c.c. 1218 e 2043 c.c. e riparatorio ripristinatorio. Come precedentemente detto, la responsabilità coinvolta nel mobbing può essere di tipo contrattuale o extracontrattuale. Nel primo caso il mobbing consiste in una violazione del generale obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.
Segnaliamo in proposito una recente sentenza della Cassazione Civile, Sez. Lav., 31 gennaio 2022, n. 2864 (Risarcimento alla dipendente comunale per lo svuotamento delle funzioni alla stessa assegnate e la protratta inattività lavorativa.)
Vediamo poi, un’altra importante e recente sentenza riguardante la condotta di mobbing del datore di lavoro che integra il delitto di atti persecutori.
Con sentenza del 5 aprile 2022, n. 12827 la Corte di Cassazione ha condannato il presidente di una s.r.l. per il delitto di atti persecutori, per avere tramite reiterate minacce ingenerato nei dipendenti un duraturo stato di ansia e di paura, così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita.
Tale decisione ha destato un certo interesse poiché è stato chiarito quando la condotta di mobbing del datore di lavoro integra il delitto di atti persecutori.
© RIPRODUZIONE RISERVATA