Il colosso automobilistico è riuscito a scongiurare la chiusura di alcuni stabilimenti. C’è un accordo con i sindacati, ma la crisi è davvero finita?
Si sta per chiudere un anno complesso per il colosso Volkswagen, con i lavoratori e i sindacati che in extremis hanno strappato un accordo per evitare la chiusura di alcuni stabilimenti.
La VW ha accettato di mantenere operative le 10 fabbriche tedesche del marchio e di ripristinare gli accordi di sicurezza del lavoro fino al 2030. In cambio, i lavoratori hanno accettato di rinunciare ad alcuni bonus, di tagliare la capacità in cinque siti di diverse centinaia di migliaia di unità e di ridurre la forza lavoro di oltre 35.000 unità nei prossimi cinque anni.
Le misure, che dovrebbero portare a circa 4 miliardi di eurodi risparmi all’anno nel medio termine, sono ben lontane dai drastici tagli proposti originariamente, anche se non è chiaro se placheranno gli investitori che hanno visto le azioni VW scendere di circa il 21% quest’anno.
Tuttavia, l’accordo offre al CEO Oliver Blume un nuovo inizio per risollevare la più grande casa automobilistica europea, che si confronta con la quota di mercato in calo in Cina e il rallentamento della domanda di veicoli elettrici in Europa e negli Stati Uniti.
Il colosso automobilistico aveva precedentemente annunciato di chiudere almeno tre fabbriche in Germania, licenziare decine di migliaia di dipendenti e ridurre le dimensioni degli stabilimenti rimanenti nella più grande economia europea, nell’ambito di una revisione della produzione più profonda del previsto
Il destino di Volkswagen interessa tutta l’Europa. Il vecchio continente sta prendendo tempo nella corsa alle auto elettriche, mentre le case automobilistiche della regione faticano ad adattarsi alla transizione e fanno emergere tutti i nodi di un sistema industriale arretrato e frenato dalla burocrazia.
A luglio, le consegne di auto a batteria sono diminuite di oltre il 10% in tutta la regione europea, principalmente a causa di un crollo del 37% in Germania, il mercato più grande della regione. Il tonfo ha colto di sorpresa i produttori e ha portato a una discrepanza tra i piani di investimento e le realtà del mercato.
I cambiamenti strategici rischiano di far arretrare l’Europa nella battaglia globale per il futuro dell’industria automobilistica. Il caso Volkswagen è emblematico.
Crisi Volkswagen, c’è l’accordo. Cosa succederà adesso?
I leader sindacali hanno salutato l’accordo come un “miracolo di Natale” dopo 70 ore di estenuanti trattative, le più lunghe negli 87 anni di storia dell’azienda. Non ci sarebbero state chiusure immediate di siti o licenziamenti e la VW sembrava essersi tirata indietro dalla richiesta di tagli salariali del 10%.
Da settembre la Volkswagen è in trattative con i rappresentanti sindacali sulle misure che ritiene necessarie per competere con i concorrenti cinesi più economici e gestire la domanda fiacca in Europa e un’adozione di veicoli elettrici più lenta del previsto.
Circa 100.000 lavoratori hanno già organizzato due distinti scioperi il mese scorso, i più grandi nella storia della Volkswagen, per protestare contro i piani di riduzione dei costi.
“Con il pacchetto di misure concordato, l’azienda ha tracciato una rotta decisiva per il suo futuro in termini di costi, capacità e strutture”, ha affermato in una nota il CEO del Gruppo Volkswagen Oliver Blume.
Come parte dell’accordo, la dirigenza ha convinto i sindacati a spostare la produzione della Golf hatchback dallo stabilimento tedesco di Wolfsburg al Messico e a ridurre la capacità produttiva dello stabilimento di Zwickau dedicato ai veicoli elettrici, spostando la produzione della ID.3 hatchback, del SUV ID.4 e della Cupra Born negli stabilimenti di Wolfsburg ed Emden.
Zwickau continuerà a produrre l’Audi Q4 e-tron e i modelli successivi facelift. Wolfsburg è pronta a produrre la Golf elettrica della VW che sarà supportata da una nuova piattaforma sviluppata con Rivian Automotive Inc. Si prevede che quel modello sarà pronto dal 2029.
La produzione di veicoli nello stabilimento di Dresda verrà interrotta entro la fine del 2025. Il personale della VW AG non riceverà aumenti in base a un accordo salariale collettivo per i prossimi quattro anni, mentre alcuni bonus saranno eliminati o ridotti.
Se gli accordi di sicurezza sul lavoro non verranno prorogati oltre il 2030, la VW dovrà versare ai dipendenti 1 miliardo di euro.
“Nessuno stabilimento verrà chiuso, nessuno verrà licenziato per motivi operativi e il nostro contratto salariale aziendale sarà garantito a lungo termine”, ha affermato la presidente del comitato aziendale Daniela Cavallo.
Perché il colosso auto è andato in crisi
La bomba Volkswagen era esplosa più di un mese fa in modo palese.
Thomas Schäfer, CEO del marchio VW veva pronunciato parole chiare sulla situazione aziendale:
Attualmente non guadagniamo abbastanza soldi con le nostre auto. Allo stesso tempo, i nostri costi per energia, materiali e personale hanno continuato a crescere. Questo calcolo non può funzionare a lungo termine.
...non siamo abbastanza produttivi nei nostri siti tedeschi e i nostri costi di fabbrica sono attualmente più alti del 25-50% rispetto a quanto avevamo pianificato. Ciò significa che i singoli stabilimenti tedeschi sono due volte più costosi della concorrenza.
La casa automobilistica tedesca, che ha emesso il suo secondo profit warning in tre mesi a fine settembre, sta attraversando un periodo difficile. Mentre i suoi marchi premium, tra cui Audi e Porsche, sono stati la principale fonte di profitto negli ultimi anni, ora sono in difficoltà. Venerdì 25 ottobre Porsche AG ha affermato di stare valutando tagli ai costi e di rivedere la sua gamma di modelli dopo che un crollo della domanda in Cina ha colpito i suoi profitti.
Il mese scorso, la Volkswagen ha dichiarato che i risultati semestrali dell’azienda indicavano che non avrebbe raggiunto il suo obiettivo di 10 miliardi di euro (10,8 miliardi di $) di risparmi sui costi entro il 2026.
La Volkswagen impiega circa 120.000 dipendenti in Germania, dove gestisce 10 stabilimenti, sei dei quali si trovano nello stato settentrionale della Bassa Sassonia, tra cui Wolfsburg.
Perché la crisi di Volkswagen spaventa l’Europa?
Il caos scoppiato in Germania sulla crisi industriale di Volkswagen non è una storia isolata. Il campanello di allarme sta suonando per tutto il vecchio continente.
“In Europa, stiamo perdendo vantaggi sui costi sempre più rapidamente”, ha affermato Ferdinand Dudenhöffer, direttore del CAR-Center Automotive Research di Bochum. “L’effetto sarà che la Cina continuerà a espandere i suoi vantaggi competitivi nei veicoli elettrici e le strutture dei costi in Europa continueranno a rimanere indietro”.
Il rallentamento della domanda di veicoli elettrici arriva mentre il mercato automobilistico della regione rimane quasi un quinto al di sotto dei livelli pre-pandemia, indebolendo anche la redditività dei veicoli convenzionali.
Volvo Cars ha abbandonato un piano per vendere solo auto completamente elettriche entro il 2030 dopo una deludente domanda di questi veicoli. La casa automobilistica, di proprietà della cinese Geely, ora punta a far sì che i modelli ibridi plug-in e solo a batteria rappresentino almeno il 90% delle sue vendite alla fine del decennio.
Volkswagen e Volvo sono tra le ultime a cambiare rotta. Anche Mercedes-Benz Group ha sollevato preoccupazioni sul ritmo degli sviluppi del mercato. Dopo aver inizialmente promesso di passare all’elettrico entro il 2030, il CEO Ola Källenius ha dichiarato a un’assemblea degli azionisti a maggio che l’azienda offrirà probabilmente modelli con motore a combustione interna per il prossimo decennio, sottolineando che la “trasformazione potrebbe richiedere più tempo del previsto”.
I produttori europei hanno faticato a proporre veicoli elettrici per il mercato di massa. Modelli di fascia alta come la Porsche Taycan da 107.000 euro e la BMW i7 da 116.000 euro si rivolgono a consumatori d’élite, ma le alternative economiche restano scarse. La versione elettrica della Fiat 500, tradizionalmente simbolo di mobilità accessibile, costa quasi 35.000 euro, il doppio del prezzo della sua controparte con motore a combustione.
Di contro, le case automobilistiche cinesi stanno capitalizzando la lenta transizione dell’Europa, lanciando veicoli elettrici a prezzi competitivi come la BYD Dolphin da 33.000 euro, rispetto al prezzo di partenza di 37.000 euro della VW ID.3. Il colosso automobilistico con sede a Wolfsburg, in Germania, si è impegnato a introdurre un’auto elettrica economica, ma i suoi elevati costi di produzione rappresentano un ostacolo.
La questione del prezzo è diventata ancora più importante negli ultimi mesi. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 ha contribuito a un’ondata di inflazione che ha colpito duramente i bilanci delle famiglie e ha messo i nuovi veicoli fuori dalla portata di molti. Gli aumenti dei tassi di interesse delle banche centrali hanno ulteriormente aumentato il costo del finanziamento dei veicoli, alzando l’asticella per i consumatori.
L’industria europea è vecchia
Il commissario europeo per il clima, Wopke Hoekstra, ha recentemente rivelato in una intervista che burocrazia labirintica e mancanza di un unico mercato dei capitali funzionale in Ue hanno ostacolato lo sviluppo di un’industria - anche automobilistica - nel tenere il passo con le sfide attuali.
“Il problema fondamentale è che siamo rimasti indietro, e lo abbiamo fatto perché il nostro sistema economico e industriale è bloccato nel passato”, ha sottolineato il commissario. Le aziende cinesi di auto elettriche, batterie e solare che ora dominano questi mercati sono relativamente nuove, e ce ne sono molte. I giganti della tecnologia degli Stati Uniti sono più consolidati, ma sono anche piuttosto recenti.
“Se si guardano le più grandi aziende europee, al contrario, si tratta davvero del vecchio continente. La maggior parte di esse risale a più di 50 anni fa. La tripletta di aziende, sindacati e governi che abbiamo costruito non consente facilmente l’ingresso di nuovi entranti”, ha dichiarato.
La crisi Volkswagen, quindi, richiama l’attenzione su questioni più complesse e urgenti. Tutto il sistema industriale europeo rischia di restare troppo indietro, con la minaccia di licenziamenti e cancellazioni di investimenti.
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