In determinati casi la legge consente al dipendente di recedere dal rapporto di lavoro con effetto immediato. Si parla, al riguardo, di dimissioni per giusta causa. Ma come provare la giusta causa?
Nel corso del rapporto di lavoro può accadere che il datore non adempia puntualmente agli obblighi di legge e contrattuali nei confronti dei propri dipendenti.
È ciò che avviene in caso di mancato o ritardato pagamento degli stipendi, di omesso versamento dei contributi previdenziali e di altre condotte illegittime ai danni del lavoratore.
Al ricorrere di simili presupposti, la legge riconosce al lavoratore il diritto di recesso immediato dal rapporto di lavoro, senza obbligo di preavviso: si parla, al riguardo, di “dimissioni per giusta causa”.
Tuttavia, non sempre i contrasti terminano con la cessazione del rapporto.
Spesso, infatti, il lavoratore, che si è visto pregiudicato dalla condotta del datore di lavoro, ha come unico mezzo per tutelare a pieno i suoi diritti il contenzioso in sede giudiziale.
Tale esigenza può nascere, ad esempio, se le dimissioni sono dovute all’omesso pagamento della retribuzione: in caso di persistente inadempimento del datore, il lavoratore dovrà agire in giudizio per ottenere la condanna di questi al pagamento delle somme arretrate.
Nella stessa sede, egli avrà inoltre diritto a rivendicare un’apposita indennità, definita “indennità sostitutiva del preavviso”, oltre al risarcimento dell’ulteriore danno eventualmente subito.
Quando si tratta, invece, di recesso da un contratto a tempo determinato, in luogo dell’indennità sostitutiva del preavviso, al lavoratore spetterà un risarcimento del danno corrispondente alla retribuzione cui avrebbe avuto diritto fino alla naturale scadenza del contratto.
Ebbene, a seconda dei singoli casi, il dipendente dimessosi per giusta causa potrebbe dover dimostrare l’esistenza dei fatti che lo hanno spinto a dimettersi, e ciò secondo le regole previste dalla legge in materia di onere probatorio.
È bene inoltre precisare che dimostrare la giusta causa di dimissioni potrebbe risultare indispensabile all’ottenimento dell’indennità di disoccupazione “Naspi”.
Questa necessità può nascere dal fatto che il datore di lavoro non voglia riconoscere le dimissioni per giusta causa, qualificandole invece come dimissioni “volontarie”.
A questo riguardo, l’Inps ha stabilito che, per l’accesso alla Naspi, il lavoratore dimessosi per giusta causa è tenuto a esibire una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, nella quale esprime la volontà di difendersi in giudizio contro la condotta illecita del datore di lavoro, altresì impegnandosi a comunicare all’Ente previdenziale l’esito della causa (Messaggio Inps del 26 gennaio 2018, n. 369).
Fatte queste premesse, nell’articolo che segue cercheremo di illustrare, in breve, come provare (quando necessario) la giusta causa di dimissioni.
Come provare giusta causa dimissioni: indice
Giusta causa di dimissioni: quando ricorre?
“Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente.”
(art. 2119, comma 1, c.c.)
Secondo tali disposizioni, in presenza delle condizioni che integrano la giusta causa, è riconosciuto tanto al datore di lavoro quanto al lavoratore il diritto di recedere prematuramente dal rapporto di lavoro, con effetto immediato e senza dover comunicare il preavviso.
Ma quali sono queste condizioni per il lavoratore?
Si tratta, in generale, di gravi comportamenti del datore di lavoro che non consentono, neanche temporaneamente, la prosecuzione del rapporto, in quanto fanno venir meno il vincolo di fiducia che lega reciprocamente le parti.
Può trattarsi non soltanto di inadempimenti contrattuali, ma altresì di condotte che violano i principi costituzionali di libertà e dignità del lavoro.
Con il tempo, la giurisprudenza ha individuato una serie di situazioni che legittimano il lavoratore a rassegnare le dimissioni per giusta causa.
Tra queste, si possono includere:
- il mancato pagamento della retribuzione;
- le molestie sessuali sul posto di lavoro;
- il demansionamento illegittimo o altre modifiche ingiustamente peggiorative delle condizioni di lavoro;
- il “mobbing”, ovvero atteggiamenti vessatori ai danni del lavoratore da parte di superiori gerarchici o colleghi;
- la notevole variazione delle condizioni di lavoro a seguito di cessione di azienda;
- il trasferimento del lavoratore ad altra sede di lavoro, in assenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive previste dalla legge (art. 2103 c.c.);
- il comportamento ingiurioso realizzato dal datore di lavoro, o da altro superiore gerarchico, ai danni del dipendente.
In tutti questi casi, il lavoratore è legittimato a recedere immediatamente dal contratto comunicando per iscritto al datore la volontà di dimettersi.
Può tuttavia accadere che i contrasti non si esauriscano con la semplice cessazione del rapporto di lavoro: il dipendente potrebbe ancora avanzare pretese nei confronti del datore, come, ad esempio, quella volta a ottenere il pagamento delle retribuzioni arretrate.
Inoltre, poiché costretto a dimettersi contro la sua volontà, la legge riconosce al lavoratore il diritto:
- all’indennità sostitutiva del preavviso, in caso di contratto a tempo indeterminato;
- al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione non percepita, in caso di contratto a termine;
- all’indennità di disoccupazione “Naspi”.
Tuttavia, qualora il datore di lavoro non confermi l’esistenza della giusta causa di dimissioni, qualificando le dimissioni come “volontarie”, oppure laddove egli contesti le richieste di pagamento avanzate dal lavoratore, sorgerà per quest’ultimo la necessità di instaurare un apposito giudizio.
A questo punto, a seconda dei casi, il lavoratore potrebbe essere chiamato ad assolvere l’onere della prova sulle circostanze che lo hanno portato a dimettersi per giusta causa: vediamo di cosa si tratta.
Onere della prova: di cosa si tratta?
Nel processo civile vige il cosiddetto “principio dispositivo”: in base ad esso, grava sulla parte interessata l’onere di provare i fatti posti a fondamento della propria domanda (art. 115, c.p.c.).
Per basare la sua decisione, il giudice potrà tenere conto soltanto delle prove proposte dalle parti, essendogli preclusa (tranne in alcuni casi tassativi) la possibilità di acquisire d’ufficio, ovvero di sua spontanea iniziativa, altre prove.
Un’eccezione è rappresentata dalla possibilità di fondare la decisione sulle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, ossia sui fatti notori: si tratta di quelle circostanze di fatto che non hanno bisogno di specifica prova, poiché comunemente riconosciute dalla collettività.
L’art. 2967, c.c. prevede, inoltre, il principio di carattere generale secondo cui, per ottenere il riconoscimento di un diritto in giudizio, l’interessato deve dimostrare i fatti posti a fondamento della propria domanda.
Si parla, al riguardo di “onere probatorio”, che può essere assolto attraverso i mezzi di prova appositamente previsti dal Codice di procedura civile.
A tal proposito, è possibile distinguere tra:
- prova documentale;
- prova testimoniale;
- interrogatorio formale;
- interrogatorio libero;
- confessione;
- giuramento;
- ispezione.
Discorso a parte va fatto per la consulenza tecnica d’ufficio (C.T.U.): essa rappresenta uno strumento di ausilio al giudice finalizzato ad accertare e a valutare i fatti sottoposti al suo giudizio da un punto di vista tecnico.
Ebbene, i medesimi principi valgono anche nel processo del lavoro, comportando, in taluni casi, l’onere di dimostrare l’esistenza della giusta causa tramite i mezzi di prova appena elencati.
Quando e come provare la giusta causa
L’onere di provare la giusta causa di dimissioni non è sempre così rigoroso per il lavoratore.
Ad esempio, se questa consiste nel mancato pagamento della retribuzione, per il lavoratore sarà sufficiente dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro e sostenere di non essere stato pagato.
A questo fine, egli potrà avvalersi di una prova documentale e, cioè, del contratto di lavoro.
Sarà, infatti, il datore di lavoro a doversi difendere, costituendosi in giudizio e dimostrando l’avvenuto pagamento dello stipendio.
Secondo la giurisprudenza, infatti, “E’ onere del datore di lavoro provare l’esatto adempimento dell’obbligazione retributiva” (Trib. Milano, Sez. lavoro, 17/05/2016, n. 1490).
Qualora il lavoratore sia anche in possesso delle buste paga contenenti somme non corrisposte dal datore, egli potrà mirare all’ottenimento di un decreto ingiuntivo: con tale provvedimento il datore verrà condannato dal giudice, in assenza di contraddittorio, al pagamento della retribuzione risultante dalle buste paga.
In questo modo, laddove il datore intenda contestare la pretesa del lavoratore, dovrà introdurre un apposito giudizio di opposizione.
L’onere di dimostrare la giusta causa è invece più rigoroso, ad esempio, nei casi in cui l’interessato voglia ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale per fatto imputabile al datore di lavoro.
Si pensi al caso del lavoratore che rivendichi il risarcimento del danno alla salute causato da un ambiente di lavoro pericoloso.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha precisato che:
“Incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.”
(Cass. civ., Sez. lav. n. 33392/2019)
Lo stesso può dirsi quando la giusta causa consiste in un comportamento illecito del datore di lavoro, come il mobbing: anche qui, secondo la Suprema Corte, la prova dei comportamenti integranti il mobbing e del conseguente danno spetta al lavoratore:
“È configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo è onere del lavoratore che lo denunci e che chieda di essere risarcito provare l’esistenza di tale danno, ed il nesso causale con il contesto di lavoro.”
(Cass. civ., Sez. lav. n. 9664/2019)
In ipotesi simili, quindi, il lavoratore sarà tenuto a dimostrare le circostanze che lo hanno costretto a dimettersi per giusta causa (e a richiedere il risarcimento del danno) ricorrendo ai mezzi di prova già visti.
A tal fine, egli potrà avvalersi, tra l’altro:
- di prove documentali, quali fotografie, corrispondenza intercorsa con il datore di lavoro (e-mail o sms), registrazioni audio e relative trascrizioni, documentazione medica (ad es., perizie medico-legali e certificati medici);
- di prove testimoniali, come l’audizione di colleghi di lavoro o di altre persone che hanno comunque assistito ai fatti;
- dell’interrogatorio formale del datore di lavoro sulle circostanze che hanno integrato la giusta causa di dimissioni.
Sarà poi il giudice del lavoro a dover valutare, caso per caso, l’esistenza della giusta causa e dei presupposti per un eventuale risarcimento sulla base delle prove acquisite nel corso dell’istruttoria.
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