Fabrizio Pirro, docente di Sociologia del lavoro, spiega a Money.it perché nel 2022, nonostante l’inflazione, siano aumentate le dimissioni. Il fenomeno Great Resignation è arrivato in Italia?
Great Resignation, lo chiamano così negli Stati Uniti ed è un termine inventato da uno psicologo americano per descrivere un fenomeno osservato dopo la prima ondata di Covid-19 nel Paese. La teoria è che centinaia di migliaia di persone, passate tramite l’esperienza dei lockdown, abbiano ripensato al loro modello di lavoro, alla sua qualità e al suo ruolo nelle vite di ciascuno, risultando più propense ad abbandonare la loro occupazione, se non soddisfacente.
Gli ultimi dati del ministero del Lavoro sulle dimissioni in Italia dicono che 1,6 milioni di persone nel 2022 ha lasciato il posto di lavoro, circa il 22% in più rispetto al 2021. Sembrerebbe quindi che questo fenomeno, la cui pervasività in Europa è fonte di discussione da almeno un anno tra sociologi, filosofi ed economisti, sia arrivato anche nel nostro Paese.
Eppure, come spiega a Money.it, Fabrizio Pirro, docente di Sociologia del lavoro alla Sapienza, si tratta di un vero e proprio “paradosso”, visto che il 2022 è stato l’anno dell’inflazione record. Dodici mesi, insomma, in cui l’aumento del costo della vita non permetteva certo di rinunciare facilmente alla propria occupazione. Quali sono, allora, le cause che si nascondono dietro questi dati? E davvero si può parlare di fenomeno Great Resignation anche per l’Italia?
Lavoro, l’aumento delle dimissioni in Italia tra 2021 e 2022
Nel 2021 c’erano stati 1,3 milioni di licenziamenti, lo scorso anno sono quindi stati 300mila in più. Tra i motivi della fine dei rapporti di lavoro le dimissioni volontarie sono al secondo posto dopo la scadenza dei contratti a termine. Contemporaneamente c’è un aumento dei licenziamenti, dopo il blocco sperimentato durante le prime ondate di Covid: 557mila i rapporti interrotti nei primi 9 mesi per decisione del datore di lavoro, in crescita del 47% rispetto al 2021, quando però valeva ancora il blocco.
Nel terzo trimestre del 2022, poi, le dimissioni sono state 562mila, in aumento del 6,6% (35mila in più) rispetto al terzo trimestre 2021. Il fenomeno, quindi, cresce e al momento riguarda sia gli uomini che le donne, ma per quest’ultime è prevalente.
Si può parlare di Great Resignation in Italia?
Secondo Pirro come prima cosa va fatta un’analisi più dettagliata di questi dati per capire chi si licenzia, con quale livello d’istruzione e per quali tipi di lavoro. Un’approfondimento porterebbe quindi a individuare meglio i motivi dei licenziamenti, separando quelli apparentemente “immotivati” da quelli determinati dall’aver trovato un’offerta di lavoro retribuita meglio o più soddisfacente.
“Sicuramente - secondo il professore - non si può dire che esista un unico fenomeno Great Resignation che vale per tutto l’Occidente, perché ogni realtà sociale e mercato del lavoro è diverso e banalmente tra Italia e Stati Uniti ci sono molte differenze”.
Tuttavia quest’ultimi dati, per Pirro, sembrerebbero confermare una tendenza generale che “durante la pandemia si è solo acutizzata e cioè la presenza di vari fenomeni di Great Resignation in Occidente, da declinare al plurale, ma accomunati da un elemento sociologico: il lavoro non basta più a dare identità e soddisfare dal punto di vista esistenziale le persone”.
La spiegazione del professore unisce quindi quella puramente psicologica (che dice in sostanza che, chi se lo può permettere, cerca un lavoro migliore per cambiare vita), con quella economica, legata a fattori di stagionalità e a un nuovo dinamismo del mercato del lavoro che “fino a qualche decennio fa era impensabile in Italia”.
Dimissioni di massa, la perdita di centralità del lavoro
Non si può dunque dire che il fenomeno americano è stato trapiantato in Italia, ma in generale “il lavoro sta perdendo centralità in generale, il valore dell’operosità sta venendo meno”. Questo secondo Pirro ha a che fare innanzitutto con “l’esplodere dell’individualismo e la disgregazione dei legami sociali”.
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In aggiunta “la qualità dell’occupazione è talmente bassa spesso da fargli perdere senso, sia dal punto di vista del reddito che del contenuto del lavoro”. L’identità professionale e lavorativa, insomma, “esiste sempre meno, e si accettano lavori che non si sa che sviluppo possano avere, che ruolo nella società ci possano dare, che carriera possano offrire”.
Si starebbe diffondendo poi anche in Italia il “mito del lavoro autonomo, che deriva poi dal sogno americano: più lavori più guadagni e paghi meno tasse, ma non è del tutto vero, dipende quasi sempre da dove si parte”. Le dimissioni di massa nasconderebbero quindi per il sociologo “le disuguaglianze sociali e la struttura stratificata della società, sia perché non vale più il motto degli anni ’70 ’ce la puoi fare, puoi scalare le posizioni sociali’, sia perché c’è chi è talmente povero e bisognoso di lavori sottopagati che non può nemmeno permettersi il dilemma delle dimissioni”.
Lavoro, i problemi e le opportunità per giovani e donne
Detto ciò, per Pirro, la parola Great Resignation non può inglobare troppi aspetti diversi tra loro. Va fatta quindi una distinzione innanzitutto tra uomini e donne e tra giovani e meno giovani. Nel primo caso “spesso le donne portano a casa il cosiddetto secondo salario, si occupano di più della casa e in questo senso, tecnicamente, in alcuni casi possono decidere di licenziarsi con più apparente libertà, ma dietro questa differenza ci sono la disuguaglianza e l’ingiustizia di una società patriarcale”.
La pandemia, poi, non ha significato lo stesso per tutti, “ma alcuni soggetti, trovandosi a lavorare a casa hanno cominciato a fare i conti con il proprio percorso e l’idea di combinare meglio vita privata e lavoro: si tratta prevalentemente di donne in lavori amministrativi e in grandi centri urbani”.
Quanto ai giovani, “c’è insoddisfazione per salari bassi e disillusione perché si sente che non c’è prospettiva: le tante forme contrattuali precarie e le pochissime possibilità di sviluppo, carriera e stabilità, se si è coperti economicamente dalle famiglie, spingono a rinunciare a lavori non ritenuti adeguati”.
Le possibili soluzioni
Insomma, secondo Pirro un certo “fenomeno Great “Resignation” in Italia esiste, ma riguarderebbe una minoranza di persone, non stritolate dall’inflazione. Per affrontarlo la priorità del governo Meloni, dei sindacati e delle imprese dovrebbe essere “rinnovare i contratti, eliminare quelli pirata e aumentare i salari, per dare più prospettiva e certezza”.
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Altro provvedimento utile, per il docente, sarebbe “disboscare i contratti precari”, anche se il fenomeno non è per forza legato a quello. Lo dimostrerebbe il caso americano, dove “il tempo indeterminato praticamente non esiste: più che l’instabilità contrattuale si soffrono l’insicurezza e la precarietà, perché se il reddito fosse medio-alto e ci fosse un sistema di welfare che ti protegge se perdi il lavoro, l’obiettivo non sarebbe per forza il contratto a vita”.
Infine, secondo l’esperto, “bisognerebbe ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, aumentando gli occupati e riaprendo la contrattazione su tutto tra sindacati e imprese, rivalutando l’incontro tra domanda e offerta di lavoro”.
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