La Germania sprofonda sempre di più nella crisi economica e industriale. Le ultime novità su Volkswagen e Intel lo dimostrano. Ecco come Berlino sta per perdere miliardi di investimenti.
La crisi economica e industriale della Germania si riflette anche nelle ultime vicende che interessano due colossi mondiali: la storica casa automobilistica Volkswagen, da 87 anni un marchio di successo tedesco e Intel, multinazionale Usa pronta a investire nella nazione europea ma ora decisa a fare un passo indietro.
Il caso Volkswagen rischia di diventare storico e senza precedenti, poiché la dirigenza sta valutando la possibilità di chiudere gli stabilimenti in Germania, dove impiega circa 300.000 persone, mentre l’azienda intensifica gli sforzi per risparmiare 10 miliardi di euro sui costi. Inoltre, potrebbe finire anche la tutela dei lavoratori sancita nel patto trentennale tra società e operai.
L’obiettivo principale di VW è rilanciare il suo marchio di autovetture omonimo che ha registrato risultati insoddisfacenti, con margini di profitto sotto pressione in mezzo a una transizione incerta verso i veicoli elettrici e a un rallentamento della spesa dei consumatori.
Le speculazioni parlano di potenziale chiusura degli stabilimenti Volkswagen di Osnabrück, nella Bassa Sassonia, e di Dresda, in Sassonia. Si rischia lo scontro con i sindacati e la comunità dei lavoratori, in un contesto davvero complesso per la Germania.
C’è poi il caso Intel: Reuters riferisce che potrebbe sospendere o bloccare i piani per la sua fabbrica da 30 miliardi di euro.
Per la Germania, intrappolata anche in una crisi politica epocale che vede l’ascesa di partiti di estrema destra, si intravede un futuro cupo. Con la perdita di posti di lavoro e di miliardi di euro di investimenti.
Il caso Volkswagen travolge la Germania. Cosa succede?
“È nostra responsabilità comune migliorare l’efficienza dei costi in particolare dei siti tedeschi. Dobbiamo aumentare la produttività e ridurre i costi. Abbiamo ancora un anno, forse due anni, per cambiare le cose. Ma dobbiamo sfruttare questo tempo” queste le parole di Arno Antlitz, direttore finanziario e direttore operativo del Gruppo Volkswagen, che hanno acceso la miccia della rabbia dei lavoratori in Germania.
“L’ambiente economico è diventato ancora più duro e nuovi attori si stanno spingendo verso l’Europa”, ha affermato Oliver Blume, amministratore delegato di VW, in una dichiarazione. “La Germania come sede aziendale sta ulteriormente arretrando in termini di competitività.”
Come se non bastassero la crisi energetica, la recessione, la generale depressione industriale del motore d’Europa, oggi “malato dell’Ue”, la debolezza del colosso ha riportato in prima pagina sia le difficoltà della Germania, sia i problemi di tutto il comparto auto europeo.
Il mercato automobilistico in Europa si è ridotto dopo la pandemia e Volkswagen si è trovata ad affrontare un calo della domanda di circa 500.000 auto, equivalente a circa due stabilimenti.
Aumentare i rendimenti del marchio VW è diventato più difficile con costi di logistica, energia e manodopera elevati. Il margine del marchio è sceso al 2,3% durante il primo semestre, rispetto al 3,8% di un anno fa. L’azienda ha anche perso slancio nel suo mercato più grande, la Cina, con la sua gamma di modelli EV molto indietro rispetto ai concorrenti, mentre le auto elettriche cinesi più economiche si diffondono nel vecchio continente.
A sottolineare il difficile contesto, il sentiment aziendale nel settore automobilistico tedesco è scivolato ulteriormente in territorio negativo ad agosto, ha affermato mercoledì l’istituto economico Ifo.
L’imminente scontro in una delle più grandi aziende tedesche minaccia la stabilità del consenso in cui i lavoratori hanno un’influenza significativa e rischia di fomentare pericolosi “nuovi attori”.
Alcuni investitori e analisti hanno ipotizzato che lo spettro della chiusura degli stabilimenti potrebbe essere una tattica negoziale per sbarazzarsi delle garanzie occupazionali e ridurre le richieste salariali.
“Sicuramente non riuscirà a liberarsi delle garanzie occupazionali, ad annullare gli aumenti salariali e a chiudere gli stabilimenti. Ma non possiamo escludere che riuscirà a raggiungere uno o due di questi obiettivi”, ha affermato Moritz Kronenberger, portfolio manager presso l’azionista VW Union Investment.
Tuttavia, il rappresentante sindacale Thomas Knabel ha affermato che non ci saranno trattative a meno che la Volkswagen non elimini la chiusura degli stabilimenti.
La dirigenza attribuisce le difficili scelte finanziarie del gruppo al peggioramento dell’economia tedesca e ai nuovi concorrenti, ma i sindacati sostengono che la strategia produttiva della casa automobilistica era inefficiente e che i decisori erano stati troppo lenti negli investimenti per produrre un veicolo elettrico destinato al mercato di massa.
Qualunque sia la causa, l’azienda deve prendere decisioni rapide su come tagliare i costi, hanno affermato investitori e analisti: una sfida per un’azienda delle sue dimensioni e con una complessa struttura di potere formatasi nel corso dei suoi 87 anni di storia.
“In tempi difficili, la dirigenza e i sindacati hanno la capacità di raggiungere un consenso”, ha affermato l’analista di Jefferies Philippe Houchois. “Ma adesso non sarà facile”.
La Germania sta per perdere i miliardi di Intel
I piani di Volkswagen rischiano di peggiorare il malessere economico in Germania, dove diverse aziende industriali stanno frenando gli investimenti.
Secondo indiscrezioni, Intel potrebbe rinunciare al piano che prevedeva una fabbrica da 30 miliardi di euro nella città di Magdeburgo, nella Germania orientale, in quanto il produttore di semiconduttori vuole razionalizzare i costi. Una notizia che, se confermata, non farebbe che aggiungersi ai tanti problemi che gravano sulla ripresa del settore manifatturiero.
Il comparto, cuore della potenza tedesca, è in recessione dall’inizio del 2022, colpito dalla perdita di energia russa a basso costo in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte del Paese, dal calo della domanda nel suo principale mercato di esportazione, la Cina, e dal calo della fiducia dei consumatori nel suo stesso paese.
Ad agosto, il PMI manifatturiero tedesco, che non ha registrato una crescita per più di due anni, è sceso a un minimo di cinque mesi di 42,4, in contrasto con un aumento globale della produzione manifatturiera.
Cyrus de la Rubia, economista capo presso la Hamburg Commercial Bank ha commentato che normalmente, negli ultimi 30 anni, l’industria è riuscita a riprendersi entro un massimo di 20 mesi dall’inizio di una recessione. Ma questa volta le cose sono diverse e la Cina sembra essere la principale colpevole.
Non è un caso che l’anno scorso, le aziende tedesche hanno investito 15,7 miliardi di dollari in progetti di capitale negli Stati Uniti, allontanandosi sia dalla Cina che dalla loro patria. Nel 2022, la cifra era di soli 5,9 miliardi di dollari.
La notizia che un numero sempre maggiore di grandi aziende sta riconsiderando le proprie attività in Germania è un problema in più per il cancelliere, alle prese con sfide interne e internazionali enormi.
In un contesto di economia in declino e populismo crescente, Scholz si trova a fronteggiare una nuova ondata proveniente dall’estrema destra politica del Paese. Domenica scorsa, Alternativa per la Germania (AfD) è diventato il primo partito di estrema destra a vincere le elezioni statali del Paese dal 1949, sottolineando la battaglia che Scholz deve affrontare per convincere non solo le aziende tedesche, ma anche i cittadini della direzione del suo governo.
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