Le motivazioni economiche, storiche e religiose si intrecciano nelle prime analisi strategiche ed ideologiche di questo conflitto.
Circa 700 israeliani e 370 palestinesi, la maggior parte civili, sono rimasti uccisi dall’inizio del conflitto tra Hamas e il governo di Tel Aviv. Le stime, seppur provvisorie, provengono dai media locali e ancora non riescono a tenere traccia dei ’dispersi’ o possibili ostaggi catturati nel corso dei raid.
L’estrema violenza di questo attacco e della sua controffensiva stupisce soprattutto per l’effetto sorpresa che le truppe dell’organizzazione paramilitare sono riuscite a garantirsi. Come riportato dalle più eminenti testate internazionali, si tratta di un’operazione senza precedenti. Mai prima d’ora la potenza di fuoco palestinese aveva soverchiato a tal punto le resistenze delle autorità centrali portando il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ad annunciare lo stato di “guerra”.
Come apprendiamo nelle ultime ore, è stato decretato l’inizio delle operazioni di terra nella Striscia di Gaza da parte del Consiglio di Sicurezza Nazionale israeliano. La decisione è senza dubbio speculare alle dichiarazioni di Netanyahu nel suo discorso alla nazione:
«Il nemico pagherà un prezzo che non ha mai conosciuto».
L’eccezionalità di questi eventi ha portato moltissimi spettatori internazionali a chiedersi perché la mobilitazione sia partita proprio ora ma per capirlo è necessario analizzare il più possibile il contesto politico di Tel Aviv, le prospettive ideologiche e, almeno in parte, le vicende storiche che hanno visto protagonisti i popoli coinvolti nello scontro.
Quali sono le rivendicazioni di Hamas?
Partiamo dalle rivendicazioni ufficiali ovvero quelle che possiamo apprendere grazie ad una nota diramata proprio dal gruppo palestinese. L’obiettivo del raid, si legge, sarebbe impedire la “profanazione dei luoghi sacri e il costante rifiuto da parte di Israele di liberare i prigionieri palestinesi”. Di norma infatti i lanci di razzi dalla Striscia di Gaza hanno le sembianze di ritorsioni mentre l’operazione in corso è stata definita dai suoi esecutori “tempesta di Al-Aqsa” - omonima moschea e centro d’interesse del gruppo situato a Gerusalemme. Al centro dell’attenzione ci sarebbe quindi la matrice religiosa con un attacco sferrato durante lo Shabbat, la festa del riposo che si celebra ogni sabato.
Simili i toni della comunicazione diramata dall’Autorità Nazionale palestinese secondo la quale gli attacchi vanno inquadrati “nella assenza di una soluzione della questione palestinese per 75 anni, nella continuazione della politica di doppio-standard della comunità internazionale, nel suo silenzio di fronte alle pratiche criminali e razziste delle forze di occupazione israeliane, e nella continuazione della ingiustizia e della oppressione".
Ci sono però anche interessanti letture del timing di questo raid che partono da ricorrenze radicate nel sentire comune della popolazione e nella memoria storica di chi, anche non avendola vissuta, ha sentito parlare della guerra dello Yom Kippur (anche nota come la Guerra del Giorno dell’Espiazione - giorno solenne del calendario ebraico) che ebbe inizio il 6 ottobre del 1973.
Il conflitto militare scoppiato esattamente 50 anni fa vide un attacco coordinato contro Israele che, nonostante l’efficace controffensiva, legittimò la coalizione capeggiata da Egitto e Siria dando prova dell’espugnabilità di Tel Aviv. Ciò che però salta all’occhio oggi è l’isolamento delle forze palestinesi che non sembrano più poter contare su un apparato di Stati avversi al governo israeliano come allora.
Perché proprio ora?
La maggioranza degli analisti però considera non esaustive e non convincenti queste motivazioni poiché estemporanee rispetto alle ben più rilevanti questioni politiche che stanno interessando il Medio Oriente e i suoi equilibri futuri.
Valeria Talbot, Head ISPI MENA centre, prova a inquadrare il fenomeno e parla di un attacco che «avviene sullo sfondo dei negoziati per la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, sponsorizzati dagli Stati Uniti nella cornice degli Accordi di Abramo del 2020. Un rapprochement tra Tel Aviv e Riyadh che sarebbe di portata storica.» Nel quadro di queste trattative infatti la questione palestinese rappresentava già uno dei nodi più critici ma oggi si conferma come l’ago della bilancia capace di far saltare l’accordo.
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