Quanto costa la gravidanza ad azienda e lavoratrice: cosa ci dice il caso Elisabetta Franchi

Simone Micocci

10 Maggio 2022 - 17:57

Divampa la polemica per le parole di Elisabetta Franchi riguardo alla propria politica aziendale. Ma non si può negare che un problema c’è, e non si può pretendere che siano le aziende a risolverlo.

Quanto costa la gravidanza ad azienda e lavoratrice: cosa ci dice il caso Elisabetta Franchi

Le parole di Elisabetta Franchi sul perché nel settore della moda - e non solo - scarseggiano donne nei ruoli dirigenziali stanno suscitando non poche polemiche.

Eppure le sue dichiarazioni, seppur pronunciate con la stessa delicatezza di un elefante in una cristalleria, potrebbero nascondere un pizzico di verità, in quanto fanno luce - semmai ce ne fosse bisogno - su un sistema che di certo non incentiva le aziende ad assumere giovani donne, e non solo nei ruoli apicali.

Sicuramente il suo punto di vista poteva essere espresso in modo migliore, per utilizzare un eufemismo, ma il fatto che le sue parole abbiano generato due fronti contrapposti dimostra che non esiste una sola verità.

Basta guardare i dati d’altronde: il gender pay gap mondiale, ossia la differenza che c’è tra il salario annuale medio percepito dalle donne e quello invece spettante agli uomini, è ancora intorno al 20% (in sfavore del gentil sesso ovviamente). Inoltre, come riportato dal bilancio di genere 2021, l’occupazione femminile nell’anno del Covid è crollata al 49% (mentre in Europa siamo al 62,7%), mentre la differenza rispetto al tasso di occupazione maschile ha raggiunto il 18,2%, rispetto ai 10,1 punti della media europea.

Insomma, il problema esiste e non è stata di certo la Franchi a crearlo.

D’altronde, al giorno d’oggi fa notizia un datore di lavoro che sceglie di assumere una candidata pur sapendo che è incinta, a dimostrazione che la realtà è un’altra. Ci sono aziende che persino in fase di colloquio chiedono alla candidata se ha figli o se ha intenzione di averli, con il desiderio legittimo di famiglia che potrebbe essere un impedimento all’assunzione.

Ma per quale motivo la scelta di avere un figlio deve essere uno sconvolgimento solamente per la mamma? Perché durante i colloqui di lavoro non viene chiesto a un uomo se intende avere figli o meno? Questo perché nel nostro Paese è ancora diffuso il preconcetto che dà per scontato che il figlio possa avere conseguenze solamente per la mamma, impattando sulla sua vita e carriera e limitandone le energie - e la passione - che prima della gravidanza venivano interamente dedicate al lavoro.

Dunque, diciamocelo con chiarezza: le aziende, chi più e chi meno, hanno poco interesse ad assumere una giovane dipendente e il nostro ordinamento fa davvero poco per fargli cambiare idea. E a farne le spese sono appunto le donne, le quali in un momento della loro vita potrebbero trovarsi di fronte a un bivio, dovendo scegliere tra famiglia e carriera. Un dilemma che quasi mai si propone agli uomini, visto che di fatto è sulle donne che gravano solitamente i carichi familiari.

Quanto costa all’azienda una lavoratrice in gravidanza

Proviamo per un attimo a metterci nei panni di un’azienda, e non di una grande come può essere il brand di Elisabetta Franchi che solo nel 2019 ha registrato un fatturato di 120 milioni, ma di una medio-piccola.

Due sono generalmente i problemi a cui questa deve far fronte in caso di gravidanza di una propria dipendente: da una parte c’è il discorso economico da affrontare, dall’altra le difficoltà organizzative.

Il primo aspetto riguarda i costi, perché durante il periodo coperto dalla maternità obbligatoria - della durata di 5 mesi - il datore di lavoro contribuisce al pagamento dello stipendio della dipendente. In tale periodo, infatti, spetta un’indennità sostitutiva che viene pagata all’80% dall’Inps, mentre - come stabilito dalla maggior parte dei contratti nazionali - per l’altro 20% deve farsene carico l’azienda.

Azienda che nel frattempo deve trovare un sostituto e formarlo, facendosi dunque carico dei costi che ne conseguono, seppur con la possibilità di accedere a degli sgravi contributivi.

Il secondo problema riguarda appunto le difficoltà organizzative, con l’azienda che deve ideare un piano per far fronte all’assenza della lavoratrice, il che diventa tanto più difficile quanto più è rilevante il ruolo ricoperto in azienda da quest’ultima.

Un piano che è anche difficile da pensare in quanto non sempre si può rispondere a domande su quando effettivamente la lavoratrice deciderà di sospendere la propria attività lavorativa, come pure su quando questa intende rientrare.

Ci sono infatti diverse variabili da considerare: la possibilità che si possa trattare di una gravidanza a rischio e che dunque l’assenza possa essere immediata, senza il minimo preavviso. Come pure la facoltà per la dipendente di richiedere un congedo parentale al termine del periodo coperto dalla maternità obbligatoria, oppure la possibilità che questa decida di dimettersi in tronco entro il compimento del primo anno del figlio.

Insomma, l’azienda rischia di trovarsi improvvisamente scoperta in un ruolo più o meno importante, senza sapere quando - e se, vista la possibilità che questa possa decidere di rassegnare le dimissioni - potrà nuovamente contare su di lei.

Ora, se questi problemi potrebbero anche essere facilmente superabili da una grande azienda - che comunque il problema se lo pone visto che inevitabilmente tende a fare i suoi interessi - non si può dire lo stesso per le realtà più piccole, per le quali il costo da sostenere, tra pagamento dello stipendio (seppur di una parte) alla dipendente e spese da affrontare per la sua sostituzione, potrebbe anche essere proibitivo.

Le conseguenze della gravidanza per la lavoratrice

Ma la gravidanza ha un “costo” anche per la lavoratrice, la quale rischia di dover rinunciare alla propria idea di carriera scegliendo di avere un figlio. Questa, infatti, dovrà trovare un modo per conciliare famiglia e lavoro, il che non è affatto semplice.

È importante però che una donna abbia le stesse libertà di un uomo nel decidere se mettere al mondo un figlio, senza che questa scelta venga in qualche modo influenzata dall’eventuale rinuncia alla carriera, come spesso invece accade.

Cosa ci dicono le parole di Elisabetta Franchi?

Semplicemente che un problema esiste e che non si può chiedere alle aziende di risolverlo. Perché è vero che ci sono datori di lavoro che potrebbero adottare una politica aziendale maggiormente in favore delle giovani donne, ma è altrettanto vero che ci sono delle dipendenti che in questi anni si sono approfittate dei diritti a loro riconosciuti, ad esempio tenendo completamente all’oscuro l’azienda riguardo a come intendono gestire il rientro dalla gravidanza oppure approfittandosi dello strumento della gravidanza a rischio.

C’è un conflitto d’interessi tra azienda e dipendente e negarlo non serve a nulla. Semmai, prese di posizione come quelle di Elisabetta Franchi potrebbero essere d’aiuto per far scattare un dibattito ai piani alti.

Perché serve che le istituzioni, anziché semplicemente schierarsi dalla parte delle lavoratrici, comincino a pensare a come effettivamente incentivare l’occupazione femminile e limitare il gender gap pay.

Quali soluzioni per tutelare donne e aziende?

È necessario trovare un modo per far sì che un’azienda che assume una candidata in gravidanza diventi la normalità e non l’eccezione. E l’unico modo per farlo è quello di rendere effettivamente conveniente l’assunzione, ad esempio facendo sì che l’Inps riconosca il 100% della retribuzione durante la maternità, azzerando quindi il costo lato azienda che da parte sua deve già farsi carico delle spese necessarie per far fronte alle esigenze organizzative. E proprio in tal senso si potrebbe riconoscere un indennizzo all’azienda in caso di lavoratrice in gravidanza.

E ancora, si potrebbe pensare all’introduzione di un obbligo di preavviso per la dipendente nel caso in cui questa decidesse di posticipare il rientro, oppure qualora decida di non rientrare proprio dimettendosi dal lavoro (con la possibilità di percepire comunque la Naspi).

Allo stesso tempo le istituzioni potrebbero interrogarsi su cosa effettivamente viene fatto per far sì che una donna possa conciliare al meglio l’essere mamma con i propri impegni e responsabilità lavorative.

I dati ci dicono che i provvedimenti di convalida dell’Inail per le dimissioni presentate da lavoratori padri e lavoratrici madri riguardano per il 77,4% quest’ultime; vogliamo dare la colpa alle aziende anche in questo caso? No, tanto meno delle donne. Il problema è che non ci sono sufficienti strumenti che concedono a una donna di scegliere sia la carriera che il lavoro, visto che spesso lo stipendio non riesce a coprire le spese per asilo nido e baby sitter.

Insomma, anziché lasciare che il tutto si risolva ancora una volta in una guerra tra ricchi e poveri, dove ognuno cerca di portare acqua al proprio mulino, lo Stato dovrebbe ricoprire il ruolo di mediatore, spianando la strada a tutte quelle donne che giustamente proprio non vogliono scegliere tra carriera e lavoro, e facendo sì che un’azienda non si faccia alcun problema nell’assumere una lavoratrice, di qualunque età essa sia.

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