Il raid dell’Fbi nella casa dell’ex presidente Usa potrebbe volgersi a suo vantaggio per le presidenziali del 2024
Il partito democratico - con l’ausilio del Dipartimento di Giustizia, dell’Fbi e dei media - ha organizzato la clamorosa incursione nel resort dell’ex presidente in Florida. Le pile di documenti sequestrati a Donald Trump, con tanto di apertura forzata della cassaforte di casa, “devono” ora essere la pistola fumante: le prove di un crimine commesso che porterà alla condanna di Trump e, se sarà grave abbastanza nel merito da inorridire l’opinione pubblica, alla sua estromissione dalla competizione elettorale.
La Costituzione definisce i requisiti per la non eleggibilità a presidente, e vari costituzionalisti hanno già chiarito che un’incriminazione basata solo sulla violazione di leggi passate dal Congresso non squalificherebbe automaticamente Trump dal punto di vista legale. Ci sono precedenti storici di candidati che hanno svolto la campagna presidenziale dalla galera, come Eugene Debs che nel 1920 poté correre da nominato per il partito socialista Usa anche se stava scontando una condanna per reati federali.
Se dallo spoglio dei documenti non dovesse uscire materiale indiscutibilmente compromettente agli occhi dell’opinione pubblica (compresi i Repubblicani più o meno trumpiani e gli indipendenti indecisi), questa operazione dell’Fbi rafforzerebbe l’immagine dell’ex presidente, facendone la vittima di una persecuzione di regime.
I 30 agenti tornati a Washington con le mani sostanzialmente vuote significherebbero che l’ex presidente non ha soltanto smascherato un bluff giudiziario ai suoi danni, ma ha pescato una nuova, impensabile carta da usare nella campagna per la nomination del Gop nel 2024. Proprio grazie a questo raid dell’Fbi in Florida, che si aggiunge alle inchieste ancora in corso sui suoi affari privati delle procure di New York e della Georgia, Trump appare ancora più convinto che tornare a essere il presidente è la sua sola polizza personale contro l’assedio dell’establishment.
Gli storici già annoverano le manovre contro Trump come fallite: il fiasco delle accuse di collusione con la Russia; il famigerato dossier Steele pagato da Hillary Clinton e preso sul serio per troppo tempo da Fbi e giornali Usa e globali; l’inchiesta, conclusa con una doppia assoluzione dopo molti mesi e centinaia di milioni di dollari pubblici per il “dream team” di avvocati liberal svolta dalla Commissione speciale, la cui guida era stata affidata a Robert Muller; le due procedure alla Camera per due successivi tentativi di impeachment che hanno sbattuto contro il prevedibile muro assolutorio del Senato. Da ognuna di queste vicende cavalcate dalla stampa, la vittima predestinata è uscita indenne. Semmai, ha incassato punti politici.
Chi ha seguito le cronache politiche negli Usa di questi anni ricorda come il candidato presidente abbia fatto dell’uso di un linguaggio spesso grossolano e stupidamente volgare contro gli avversari non solo l’arma per sfondare nei media e farsi pubblicità gratis nel 2015-2016, ma anche il chiavistello per connettersi con quello che sarebbe diventato il suo decisivo bacino elettorale: gli esclusi, l’opposto delle élite, il popolino del centro dell’America lontano dalle coste elitarie. Secondo il gergo dispregiativo di condanna nato nell’era di Trump, la sua base sono i «deplorevoli» nel linguaggio della Clinton, oppure la gente «bigotta che pensa solo a dio e alle armi» in quello di Barack Obama: sociologicamente, i milioni di contadini svillaneggiati dai radical chic e gli operai, sindacalizzati e no, penalizzati dall’offshore. Tutti elettori dimenticati dai Dem in ossequio alla globalizzazione e al wokismo.
Questo Trump ha straparlato e offeso, non c’è dubbio, e ha dilapidato tanto capitale politico accumulato con le sue azioni coerentemente conservatrici: tasse e regolamentazioni tagliate; record di occupati tra neri, ispanici e donne; tre giudici conservatori alla Corte Suprema; i Patti di Abramo in Medio Oriente; i vaccini anti-Covid a tempo di record. E come lo ha sperperato? Con gli eccessi della sua retorica. Con i troppi errori di comportamento generati dai limiti del carattere. Con l’impermeabilità a recepire i consigli dei suoi collaboratori più validi e persino dei suoi famigliari. Con l’incapacità di trasformare la sua immagine egotistica, più incline a scostare il pubblico generale che non ad accostare gli alleati potenziali, in quella di un leader vincente che sa fare tesoro dei propri successi.
Questo bagaglio, greve e ineludibile, è stata la zavorra che ha prodotto i milioni di voti contro di lui, oltre 80 - il record di sempre - che hanno eletto Biden in odio a lui. La negatività di Trump era poi esplosa con la vergogna dell’assalto dei suoi seguaci fanatici al Campidoglio, il 6 gennaio 2021, a elezioni perse. La commissione di indagine della Camera, in mano ai Democratici e con due soli repubblicani dichiarati Never Trump e cooptati da Nancy Pelosi, sta ancora investigando per far emergere tutti i dettagli di quella giornata nera.
Il gossip di Washington è che proprio l’insufficienza di prove, tra quelle finora raccolte, che inchiodino Trump a un ruolo di mandante e di responsabile organizzativo della sommossa, abbia spinto a tentare la mossa estrema. Vuoi vedere che la pistola fumante è sotto il letto di Melania?
Finora non è stato ancora chiarito - siamo alla fine della settimana iniziata con il lunedì del raid - che cosa abbia indotto il ministro della Giustizia ad autorizzarlo: Garland ha ammesso di aver firmato l’avviso, poi ha chiesto al giudice federale di rendere pubblica la richiesta di perquisizione, ma solo 4 giorni dopo l’irruzione. Al che Trump ha ribattuto: «rilasciate subito tutto».
È un giallo senza il cadavere e con tanti sospettati di aver voluto la visita a casa Trump: il ministero della Giustizia? L’Fbi? L’agenzia federale che ha il compito di raccogliere negli Archivi i documenti in mano a un presidente fino al giorno in cui lascia la carica? È questo l’ente governativo che, in effetti, ha la titolarità della richiesta a Trump delle sue carte che erano a Washington, ma più il focus si sposta sui documenti delicati, quelli cosiddetti “classificati” dei quattro interi anni di governo Trump fino al voto del novembre 2020, più l’affronto del raid, un anno e mezzo dopo, perde senso di urgenza e drammaticità.
Tristemente, la perquisizione sembra solo rientrare a pennello nella modalità che il mondo anti-Trump, i liberal, i media, il partito democratico, stanno seguendo dal 2015 nei suoi confronti. E questa è la seconda cosa che l’America non può dimenticare, tanto meno Trump, il cui carattere permaloso è fuori dal comune.
Gli attacchi personali da parte di conduttori televisivi, attori, vignettisti, scrittori, sportivi, membri del Congresso e dei vertici istituzionali, Ceo delle corporation più rinomate sono scattati fin dalla sua famosa discesa dalla scala alla Trump Tower in poi. Hanno inondato le cronache e costituiscono un universo trasversale tra le professioni accomunate dalla ideologia “progressiva” di sinistra, che ha radicalizzato la linea del partito democratico.
Questo approccio non ha solo sdoganato una volgarità verbale, fino alle minacce di morte esplicite per esprimere il dissenso di un partito verso il presidente del partito di opposizione, ma la lotta politica, che è ovviamente il sale della repubblica nelle sue forme legittime, è debordata sul terreno pericolosissimo dell’utilizzo fazioso di strumenti istituzionali. Ma l’Fbi, il ministero della Giustizia, l’esercito e le polizie sono stati creati per essere credibili in eterno di fronte al popolo e al Paese, non ai fini di qualche tornaconto politico di parte, immediato. Ogni precedente che straccia una regola non scritta, anche quelle del decoro e del rispetto verso la figura di un presidente, in carica o ex, è destinato a lasciare il segno: nel sistema bipartitico che inevitabilmente produce un’alternanza di potere, purtroppo, chi viene dopo non dimentica.
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