Negli USA un vero e proprio dramma umanitario mascherato come «emergenza nazionale».
L’amministrazione di Donald Trump ha avviato quella che è stata definita come “la più grande deportazione di massa nella storia degli Stati Uniti”. La promessa elettorale del tycoon, già controversa durante la sua campagna presidenziale, sta diventando una spaventosa realtà: centinaia di migranti sono stati arrestati e deportati con metodi che evocano scenari da incubo. Gli aerei militari si sono trasformati in mezzi di espulsione e le immagini dei deportati in catene sono ormai diffuse sui media.
L’emergenza al confine
Uno dei primi atti della nuova amministrazione è stata la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale al confine con il Messico. Questo ha permesso un immediato incremento dei controlli sui migranti irregolari e l’intensificazione di quelle che sono vere e proprie deportazioni. Secondo la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, l’amministrazione ha già arrestato 538 migranti irregolari, definendoli “criminali”, mentre centinaia di loro sono stati riportati nei Paesi di origine tramite voli militari. Non ci sono ancora conferme recenti che giustifichino tali operazioni.
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Va detto comunque che l’utilizzo di mezzi militari per queste operazioni, unito alla diffusione di immagini di migranti incatenati, solleva interrogativi sui metodi adottati e sul rispetto dei diritti umani. Il Messico ha dichiarato di voler collaborare con gli Stati Uniti nel rispetto della sovranità reciproca, ma il tono dell’amministrazione statunitense sembra mirare più alla repressione che a una soluzione condivisa.
L’abolizione dello ius soli e un Pentagono (un po’ troppo) controverso
Un altro elemento chiave nella stretta sull’immigrazione è stata l’abolizione dello ius soli attraverso un ordine esecutivo firmato da Trump nel suo primo giorno a Washington. Il diritto di ius soli, sancito dalla Costituzione, garantisce sostanzialmente la cittadinanza a chiunque nasca negli Stati Uniti. La misura è stata immediatamente bloccata da un giudice federale di Seattle, che l’ha definita “spudoratamente incostituzionale”. L’amministrazione ha annunciato di voler fare ricorso, puntando a portare il caso fino alla Corte Suprema. Anche qui, va specificato che la sua abolizione non può essere realizzata tramite un semplice ordine esecutivo e sarà quindi necessario attendere per ulteriori conferme.
Anche la conferma di un personaggio quale Pete Hegseth come segretario alla Difesa ha segnato un altro passo chiave della nuova amministrazione. Ex maggiore dell’esercito e conduttore di Fox News, Hegseth è una figura polarizzante, criticata dall’intero campo democratico e da alcuni senatori repubblicani. Nonostante ciò, il voto decisivo del vicepresidente ha permesso la sua nomina. Nel frattempo, tra le fila repubblicane si fa strada l’idea di una modifica al 22esimo emendamento della Costituzione, che consentirebbe a Trump di candidarsi per un terzo mandato nel 2028. La proposta, avanzata dal deputato conservatore Aldy Ogles, appare comunque improbabile, considerando la necessità di un sostegno bipartisan.
Una nazione divisa
Queste azioni sono l’ennesimo capitolo della polarizzazione politica e sociale che sta attraversando gli Stati Uniti. Mentre l’amministrazione cerca di consolidare il potere attraverso misure a dir poco drastiche, le persone più vulnerabili diventano bersagli di una strategia che le disumanizza per rafforzare una narrazione di controllo e paura. Il sogno americano, per molti, si trasforma in un incubo, in una lotta disperata contro un sistema che li rifiuta, li stigmatizza e li reprime senza pietà. In un momento storico come questo, è fondamentale non perdere di vista l’umanità: ogni singolo individuo deportato porterà una storia di sofferenza, di speranza e di resistenza. La storia giudicherà non solo chi ha imposto queste politiche, ma anche chi ha scelto di restare in silenzio o di distogliere lo sguardo davanti a una tragedia umana di tale portata.
Ma c’è un’altra questione inquietante. La spinta a forzare i limiti della Costituzione, come dimostrano le ambizioni di un terzo mandato presidenziale, solleva ombre e paure su un futuro possibile di autoritarismo. Non si tratta solo di un rischio per gli Stati Uniti, ma di un segnale globale: ovunque nel mondo, simili derive trovano terreno fertile quando il rispetto delle regole democratiche viene piegato alle ambizioni di pochi. La paura e l’apatia rischiano di diventare complici silenziosi di una lenta ma inesorabile erosione della libertà.
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