Il GOP si prepara alle presidenziali del 2024, ma la vittoria dei repubblicani è messa in crisi dal calo della figura di Trump nei sondaggi.
Il 5 novembre 2024 è lontanissimo sui calendari della gente normale, ma per i ritmi della politica Usa è dietro l’angolo. I due partiti si preparano alla prossima elezione presidenziale in condizioni oggettivamente diverse. I democratici pendono dalla volontà del presidente in carica di cercare il bis, e se Joe Biden confermerà tra qualche mese (o settimana) l’intenzione di correre che ha già espresso “ufficiosamente” da tempo, la partita si chiuderà senza nemmeno iniziare.
Nel GOP, invece, è l’ex presidente ad avere già depositato ufficialmente, il 15 novembre, le carte per ricandidarsi alla nomination repubblicana. Ma Trump è un ex che ha perso, anche se non lo vuole ammettere, e la battaglia che dovrà affrontare per strappare il diritto alla rivincita appare ogni giorno, anzi ogni sondaggio che passa, sempre più difficile, disperata. È vero che le primarie che contano, quelle con i voti degli elettori repubblicani, si terranno fra un anno circa, ma il clima in casa repubblicana e nell’opinione pubblica indipendente si è via via trasformato, a danno di Trump.
Il momento iniziale del tramonto della sua leadership è stato il 6 gennaio 2021, la data della vergogna dell’assalto a Capitol Hill dei suoi più esaltati sostenitori. Da allora la parabola della crisi della leadership di Trump non si è più fermata, fino a toccare il fondo con il voto di medio termine del novembre scorso per il rinnovo del Congresso. Le aspettative nel GOP erano altissime, viste le cattive condizioni economiche nel paese che favorivano un ricambio, ma i repubblicani non hanno ottenuto il controllo del Senato e incassato solo una vittoria risicata alla Camera.
Ciò che conta, sul piano della credibilità e affidabilità di Trump come leader del partito, è che una crescente fetta di repubblicani si è convinta che la “quasi debacle” nel medio-termine sia stata colpa sua. Ossia dei candidati sbagliati, sgraditi alla gente moderata, ma che lui ha imposto in tanti distretti e Stati “in bilico”, quelli in cui la qualità personale pesa e l’essere troppo trumpiani è un handicap, non certo un pregio. Nel 2022, in pratica, si è replicato in troppe parti del paese ciò che era successo nel 2020: allora ne beneficiò direttamente Biden, che fu eletto in quanto “non Trump”. Stavolta, la reazione è stata, per molti repubblicani, di non andare al seggio pur di non votare certi personaggi imposti da Trump e considerati non adeguati.
La popolarità generale di Trump tra i repubblicani, insomma, è il metro con cui misurare le chance di vittoria del GOP tra 22 mesi. Se resta elevata, almeno quanto basta per garantirgli di battere i candidati disposti a sfidarlo nelle primarie, i democratici si assicureranno ancora la Casa Bianca. Un anno fa i sondaggi non lasciavano spazio a speranze di rinnovamento nel GOP. Basti dire che la posizione prevalente tra i dirigenti del partito repubblicano, pur potenzialmente in grado di sfidare l’ex presidente, era «se si candida Trump io non ci provo neppure». Era quando il seguito della base del partito, nei sondaggi, aveva percentuali ancora bulgare, seppure stesse iniziando il declino avviato il 6 gennaio 2021.
Negli ultimi tre o quattro mesi, però, il quadro è cambiato, e Trump è stabilmente sceso sotto il 50% tra le preferenze dei repubblicani. Secondo la media dei sondaggi tenuta da Real Clear Politics (periodo da metà novembre e metà dicembre) Trump è in testa con il 47%, seguito da DeSantis con il 28,8%, Mike Pence con il 7%, Nikki Haley con il 3,3%, Ted Cruz con il 2,5% (l’11,4% è indeciso o preferisce altri, come Mike Pompeo ex segretario di Stato, Tim Scott, unico senatore nero repubblicano, Kristi Noem governatrice del Sud Dakota).
I singoli sondaggi, in dettaglio, hanno elevato la statura politica del governatore della Florida Ron DeSantis, che ha tratto un ovvio vantaggio dal successo della sua rielezione con 20 punti di distacco, a inizio novembre, sull’avversario democratico. Il sondaggio Quinnipiac University del 20 novembre ha visto Trump e DeSantis pari con il 44% (e l’11% di indecisi). Harris/Harvard del 15 dicembre ha visto addirittura DeSantis battere per 52% a 48% Trump, in un ipotetico faccia a faccia. Quando i sondaggisti hanno proposto un campo allargato di opzioni, invece, Trump si è confermato al 48%, superando DeSantis (25%), Pence (6%), Haley (4%) Cruz (2%), con il resto di indecisi.
Il sondaggio YouGov/The Economist del 20 dicembre ha anch’esso incoronato DeSantis vincitore con 41%, relegando Trump al 26% (con il resto di incerti). Un altro sondaggio YouGov/Yahoo News ha dato il 48% a DeSantis e il 40% a Trump. Il sondaggio Morning Consult del 20 dicembre, infine, ha posto DeSantis al 33%, dietro a Trump (con il 48%) e davanti a Pence (8%), a Cruz (3%), Haley (2%), Pompeo, Scott e Noem (1%).
I numeri delle rilevazioni successive al voto di inizio novembre sono ancora ballerini, ma due elementi emergono nettamente. Il primo è il trend per ora a favore di DeSantis, la cui popolarità è crescente e poggia su un fattore opposto a quello negativo che contraddistingue Trump: il governatore ha mostrato non solo di sapere vincere, ma è stato capace di farlo in uno Stato che fino a ieri veniva definito ballerino e che ora appare saldamente repubblicano. In altre parole, il governatore del GOP attrae consenso anche tra gli iscritti democratici e tra gli indipendenti.
L’altro elemento emerge dai sondaggi con sempre maggiore chiarezza. Quando i due nomi, Trump e DeSantis, vengono proposti in alternativa secca a farne le spese è Trump e a uscirne bene è DeSantis. Ma questa non è la realtà: gli altri candidati esistono, hanno la loro ambizione e una fetta di consensi, pur minoritaria, ma che cercheranno via via di ampliare alle primarie. Trump ha uno zoccolo duro, e la curiosità sarà di capire quanto terrà sotto i colpi del calo crescente di popolarità in atto. Se il lotto degli sfidanti, per selezione naturale dovuta all’abbandono progressivo da parte dei loro stessi sostenitori, o per rinuncia volontaria, faranno spazio per una unica alternativa a Trump (e oggi DeSantis sembra avere le carte migliori, anche se un giudizio definitivo è prematuro), il partito repubblicano avrà una possibilità seria di vincere nel 2024.
Se gli sfidanti dell’ex presidente tireranno troppo in lungo la partita delle primarie repubblicane, il GOP potrebbe ridursi a un bis del 2016, ma stavolta Trump non vincerebbe. Allora giocò anche sull’effetto sorpresa, mentre ora lo conosce tutta l’America: con il voto dei fedelissimi (oggi ha il 37,2% di consenso popolare e il 56,8% che lo detesta) non andrebbe lontano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA