Intervista di Money.it all’ex ambasciatore Marco Carnelos sulla crisi in Afghanistan: “La grande maggioranza dei 2000 miliardi spesi dagli USA nel Paese sarebbero rientrati come contratti a imprese”.
La questione Afghanistan continua a monopolizzare tutte le attenzioni internazionali, con Joe Biden che al G7 nonostante il pressing degli altri leader ha confermato il 31 agosto come data del ritiro definitivo delle truppe americane dal Paese.
In uno scenario così complesso e ricco di incognite come quello afgano, Money.it ha intervistato Marco Carnelos, attuale CEO & Founder di MC Geopolicy ed ex ambasciatore in Iraq e prima inviato speciale del Governo italiano per il processo di pace in Medio Oriente e la crisi in Siria.
Dal G7 straordinario convocato in tutta fretta per discutere dell’Afghanistan non è emerso nulla di particolare, tranne la conferma da parte di Joe Biden del ritiro definitivo delle truppe USA entro il 31 agosto. Cosa succederà a Kabul a partire da settembre?
II G7 non poteva che risolversi in un elenco di appelli ed aspettative peraltro noti e in larga parte scontati, nulla di più, a conferma di una marcata assenza di visione da quello che dovrebbe essere, ma non lo è più, il principale punto di riferimento della comunità internazionale. I sette grandi del mondo al momento appaiono abbastanza medi. Biden ha mantenuto la scadenza del 31 agosto ma ha chiesto ai suoi di prevedere piani di contingenza se la necessità di estenderla divenisse inevitabile, in sostanza starebbe prendendo tempo perché non sa cosa fare e insieme a lui non lo sa nessun altro, come nessuno sa cosa accadrà a settembre. Sull’Afghanistan la comunità internazionale naviga a vista, e lo fa da almeno venti anni, perché non conosce e forse non ha mai voluto veramente conoscere il Paese, ha preferito proiettare su quest’ultimo la propria visione del mondo.
Dopo l’accordo siglato da Trump con i Talebani, Biden poteva gestire diversamente questa situazione?
Biden ha ereditato da Trump un accordo siglato con i Talebani senza il concorso del Governo afgano e degli stessi alleati NATO che sono rimasti più o meno spiazzati. Biden ha anche rispettato la scadenza del ritiro, il 31 agosto. Certamente questa poteva essere pianificata meglio, ma quello che gli USA non avevano previsto, o forse avevano fatto finta di non vedere, è che le dinamiche sul terreno stavano prevalendo sulle necessità logistiche e temporali statunitensi e della NATO. Le forze armate afgane che, contrariamente a quanto asserito da Biden, avevano combattuto con gravi perdite negli ultimi anni, hanno smesso di combattere per due ragioni: hanno ritenuto che non ne valesse più la pena, evitando peraltro un ulteriore spargimento di sangue; non hanno più ricevuto il supporto aereo dell’aviazione USA. Ricordo che l’esercito afgano è stato addestrato a combattere da quello americano solo nella modalità che prevedeva la costante presenza del supporto aereo, venuto meno questo è saltato tutto.
In questi giorni molto si è parlato di una sorta di Risiko geopolitico derivante dal ritorno al potere dei Talebani. Dalla Russia alla Cina fino al Pakistan e all’Iran, a chi giova questa nuova situazione in Afghanistan?
Come ho scritto ieri sulla rivista Middle East Eye l’esito della vicenda afgana conclude, con la sconfitta americana, il Grande Gioco in Asia Centrale in corso da 20 anni. Ho sempre nutrito qualche dubbio che la prolungata presenza USA nel Paese fosse motivata solo dalla lotta al terrorismo e dal nation-building. In realtà questa consentiva a Washington di inserire un cuneo nel grande progetto dell’Eurasia che la Cina sta portando avanti con la Belt and Road Initiative (Nuova Via della Seta) e alla quale la Russia, gli altri Paesi dell’Asia Centrale, Iran e Pakistan si stanno associando con il disappunto statunitense perché suscettibile di mutare gli equilibri globali. Resta da vedere ora come questi Paesi colmeranno il vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti. Per il momento dalla vicenda afgana, oltre ai Talebani, si profilano solo due chiari vincitori: il Pakistan e il complesso militare industriale americano. La stragrande maggioranza dei 2000 miliardi di $ che gli USA hanno speso nel Paese sarebbero rientrati come contratti a imprese, enti e contractors statunitensi.
L’Europa anche in questa crisi afgana ha dimostrato tutta la sua debolezza in materia di politica estera, preoccupandosi al momento solo della questione migranti.
Purtroppo, è così, da diversi anni. Ormai, l’Europa ha perso gran parte della sua spinta propulsiva e tutta la sua azione internazionale appare letteralmente ossessionata dalle questioni migratorie, che sono importantissime beninteso, ma alle quali non verrebbe consentito, se sussistessero una visione ed un’autentica leadership, di imprimere una vera e propria paralisi alle nostre istituzioni.
Tra un Di Maio al mare e un Draghi con un approccio come sempre “pragmatico”, come si sta muovendo il Governo italiano?
In una crisi di tali dimensioni nessuno può muoversi autonomamente, tantomeno l’Italia, si finisce quindi con l’operare nell’ambito dei tradizionali pilastri di riferimento, che per Draghi sono quelli euro-atlantici. Peraltro, mi risulta che il nostro Premier sia stato uno dei pochi, se non l’unico, a perorare in seno al G7 la necessità di coordinamento con Russia e Cina sull’Afghanistan; un minimo di realismo e buon senso in un consesso che sembra aver da tempo smarrito la strada. Quanto alle polemiche sulle crisi gestite dagli stabilimenti balneari, queste non sono nuove e non riguardano solo noi, come testimoniato dalla bufera che sta investendo il Ministro degli Esteri britannico, Dominic Raab. A mio modesto avviso si tratta più di una questione di immagine che di sostanza. Le tecnologie consentono oggi di gestire le situazioni di crisi da qualunque posto, quello che conta è che si sappia cosa fare per affrontarle efficacemente, conta il come non il dove.
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